Zhaoxing

Alla fine arrivammo a 肇兴 (Zhàoxīng) in piena notte.
Pur non essendo una meta turistica, la festività aveva attirato un buon numero di turisti, per la maggior parte cinesi.
Si tratta del più grande e antico villaggio Dong che esista, conta più di 3500 abitanti.
L’unica polverosa stradina di montagna che porta al villaggio era quindi relativamente trafficata, e soprattutto la strada principale del villaggio era intasata di auto e persone nonostante la tarda ora.
Trovammo a tentativi un posto dove passare la notte, e devo dire che si rivelò una scelta indovinata perché eravamo non lontano dalla strada principale ma abbastanza riparati dal caos, le stanze erano al terzo piano e il balcone dava su di una piazzetta.
I proprietari poi sono delle persone semplicemente squisite, hanno una bella cucina grande e fanno da mangiare divinamente.
La quantità di piazze e piazzette presenti in questi paesini ha una sua ragione d’essere: qui l’economia, per non dire la sussistenza, è basata sulla coltivazione del riso.
Le piantine di riso vengono raccolte e portate nel villaggio, poi con uno strumento artigianale a pedali i chicchi vengono separati dal fusto.
I chicchi devono poi essere fatti asciugare, c’è bisogno di esporli su di una grande superficie, ed ecco spiegate le piazze.
In quel periodo l’attività principale del villaggio era suonare il 芦笙 (lúshēng), uno strumento musicale fatto con canne di bambù.
Insomma definirlo “strumento musicale” forse è improprio, in quanto al massimo fa due note, una alta e una bassa: “piiiii” e “buuuuu”, e “piiiii” e “buuuuu”, e “piiiii” e “buuuuu” tutto il giorno.
Poi, non si suona mai da soli; ci sono sempre gruppi di almeno una decina di persone, solitamente due gruppi che fanno a gara a chi suona più forte.
A quanto ho capito dalle spegazioni di un abitante del luogo abbastanza brillo, ci sono due tipi di gara di lusheng: primo tipo, i due gruppi vanno su una montagna distante e tentano di farsi sentire nel villaggio soffiando a più non posso nel loro strumento.
Nel secondo tipo, ci si raduna in una delle piazze del paese e via si soffia a pieni polmoni tentando di fare più casino possibile.
Il protocollo prevede che ogni villaggio mandi in giro per gli altri villaggi la sua squadra di suonatori a sfidare le squadre degli altri villaggi.
Infatti per tutto il giorno avevamo notato sulle strade dei camion pieni di gente sorridente, chiedendoci cosa stessero facendo.
Giudicando dall’aspetto (e dalla fiatella) dei suonatori, direi che tutto il movimento in realtà è una scusa per bere l’impossibile.
Imperdibile una scenetta alla quale ho assistito, quando uno dei suonatori ormai ciucco da far paura venne cacciato dai compari perché stava suonando tra le fila della fazione avversaria.
Altra cosa notevole del villaggio sono le torri o pagode che dir si voglia, di cui avevo già scritto in un posto precedente, e che vengono chiamate 鼓楼 (gǔlóu) “Torri dei tamburi”.

Specialità: 糯米 (nuòmǐ) “riso glutinoso”. Pare che un villaggio delle vicinanze sia rinomato come il migliore al mondo per la produzione di riso glutinoso.

Ecco una foto di un ballo tipico, si vedono delle ragazze con il vestito di 亮布, poi ragazzi con il costume tradizionele e anche uno straniero coinvolto forzosamente nella danza nonostante fosse impegnato a reggere il figlioletto in braccio.



link flickr
Ecco poi dei link di altri turisti che hanno fatto foto più belle delle mie: 1, 2, 3, 4.

benzina

Partimmo quindi da 程阳 (Chéngyáng) alla volta di 肇兴 (Zhàoxīng), un villaggio sempre di etnia 侗 (Dòng).
L’intenzione era di arrivare in tempo per assistere ai festeggiamenti della festa di 中秋节 (Zhōngqiūjié) “Mezzo autunno”.
In questa occasione i vari villaggi Dong organizzano delle gare di 芦笙 (lúshēng) “Lusheng“, uno strumento musicale fatto con le canne di bambù.
Ci sarebbe piaciuto molto assistere alle gare, per cui ci mettemmo in cammino di buon’ora.
Avevo il serbatoio della macchina quasi a metà, un’autonomia di più di 200 Km, per cui non mi preoccupai più di tanto della benzina.
Anzi avevamo deciso che quando l’autonomia fosse scesa a 150 Km, allora avremmo incominciato a guardarci attorno per una stazione di servizio.
Sfortuna vuole che per più di 200 Km non trovammo nemmeno una pompa della benzina; nemmeno una pompetta, una tanica, una bottiglia di benzina. Niente.
Chiedendo a destra e a manca, alla fine un poliziotto di un villaggetto di montagna ci indirizzò verso un sobborgo dei dintorni dove c’era una pompa della benzina.
Tutti speranzosi (con autonomia ormai a circa 20 Km) ci inerpicammo per una strada sì asfaltata, ma infestata di maligne buche impossibili da evitare.
Arrivati alla stazione di servizio venimmo accolti dal sorridente gestore, il quale ci informò gentilmente che causa il ponte festivo, l’autobotte della benzina non era passata e quindi di benzina non ce n’era.
Che fare? Disperati, chiedemmo in giro se in paese ci fosse qualcuno che vendeva benzina al dettaglio; in teoria è una cosa abbastanza grave, ma a volte le officine dove fanno riparazioni tengono qualche tanica di scorta.
Sembrava che ci fosse un tizio appena fuori dal paese noto per questo commercio in benzina (se ne deduce che in quella zona l’autista dell’autobotte deve essere un tipo abbastanza volubile).
Cercando di schiacciare il meno possibile sull’acceleratore, riuscimmo ad arrivare in questo postaccio maledetto con una autonomia pari a zero: serbatoio vuoto.
Si trattava del posto più desolato, sporco, polveroso e infame di tutta la provincia.
Tanto per mettere la ciliegina sulla torta, il trafficante di benzina non era in casa.
Ci mettemmo quindi ad aspettare assieme ad un paio di furgoncini e dei ragazzi in moto, tutti bisognosi di carburante.
Aspetta ed aspetta, non arrivava nessuno. Lascio immaginare cosa volesse dire starsene sotto al sole in questo scenario degno di Mad Max (o Kenshiro) con due bambini piccoli.
Il nostro compagno di viaggio, che è una lenza, nel frattempo aveva già fatto amicizia con tutti e ad un certo punto annunciò che andava a comperare la benzina.
Saltò dietro ad una moto guidata da uno dei ragazzi e repentinamente scomparve.
Il tempo passava tra polvere, sole e cambi di pannolino, fino a quando finalmente ritornò con una tanica da 20 litri!
Oh gioia!
Passammo quindi al riempimento del serbatoio con il prezioso (pagato 4 volte il valore normale!) liquido e quindi ripartimmo alla volta della nostra meta.

Chenyang

Da Yangzhou abbiamo poi proseguito per 程阳 (Chéngyáng) “Chengyang”, che è un posto famoso perché territorio popolato dalla minoranza etnica dei Dong.




In passato avevo conosciuto per lavoro un ragazzo Dong, e mi ero stupito di come fosse una persona di carattere dolce e sereno.
Ora ho capito il perché: questa gente vive in piccoli villaggi di case di legno, in un panorama mozzafiato di montagne, in armonia con la natura, nel rispetto delle proprie radici e tradizioni.
Detta così sembra un paradiso, ma certo non sono rose e fiori: la storia recente di questi popoli si intuisce nei fisici gracili dei loro anziani, spesso deformi in seguito alle fatiche della vita in mezzo ai campi.
Recentemente però le cose sono cambiate, anche grazie ai generosi interventi statali, e le condizioni di vita sono migliorate di ordini di grandezza.
Aggiungiamo che in queste zone incominciano ad arrivare anche i turisti, e con i turisti arrivano anche gli schei.
Non c’è ancora turismo di massa; personalmente spero che non si arrivi a certi livelli, per ora il posto è ancora idilliaco.




Noi abbiamo alloggiato in una casa tradizionale di legno a tre piani, mi si dice costruita senza usare nemmeno un chiodo.
Ogni villaggio ha una pagoda che serve come luogo di ritrovo, poi un teatro che serve per le cerimonie festive, matrimoni e via dicendo; il tutto sempre di legno e senza chiodi.
In effetti avvicinandosi in macchina ai villaggi si vede che l’industria del legno è molto sviluppata: dovunque ci sono segherie e tronchi accatastati.
La cosa più bella è stato comunicare con questa gente, constatarne il carattere sereno, che mi ha ricordato per molti versi i tibetani.
E poi l’ambiente, aria pura, le risaie di un verde squillante, la pulizia ovunque, le aie piene di riso e cotone ad asciugare.



Sì perché loro coltivano il cotone, lo filano, lo tessono, lo tingono nell’indaco e poi lo martellano con un martellone di legno fino a farlo diventare brillante, e ci fanno gli abiti della festa.
Il nome esatto è 亮布 (liàngbù), “tessuto brillante”, ed in effetti riflette la luce come la carta stagnola.




Alla mattina presto verso le sette c’è un omino che gira per il villaggio con un gong e ripete: “Sveglia, sveglia! Non fate i pigroni!”
Non ho fatto la domanda ovvia, e cioè se fosse un caso isolato di pazzia oppure un’abitudine del luogo; comunque gli altri abitanti lo trattavano come se fosse una cosa normale.
Specialità: 油茶 (yóuchá) “tè all’olio”, una bevanda energetica fatta con tè, zucchero e palline di riso soffiato fritte nell’olio.

Yangshuo

La prima tappa del viaggio è stata 阳朔 (Yángshuò) “Yangshuo”.
Si tratta di una piccola cittadina un po’ più a sud di 桂林 (Guìlín) Guilin; il turismo è abbastanza sviluppato, ci sono localini, pensioncine abbordabili, gente che affitta biciclette, tutto il necessario per una permanenza di qualche giorno.
Si possono fare delle bellissime gite in bicicletta nei dintorni.
Il piatto tipico è il 啤酒鱼 (píjiǔ yú), il “Pesce alla birra”, praticamente indistinguibile da un normale 烤鱼 ma tanto è l’atmosfera che conta.
Dalla città si parte per andare a fare il giro in barca sul fiume 漓江 (Lí Jiāng), dove vengono fatte il 99% delle foto dei turisti.
Il panorama è stupefacente, il fiume bellissimo, gente simpatica etc… ma stringi stringi, alla fine di foto ne basta una.
Ciononostante eccone ben tre:









Se non si vedono, ecco i link a Flickr: 1, 2, 3.
La gita dura un paio d’ore, e ci si può fermare in qualcuno dei ristorantini che ci sono sulle rive del fiume per il pranzo.
Il punto di arrivo della gita è la strafamosa montagna 九马画山 (jiǔ mǎ huà shān), “Montagna dei 9 cavalli”, della quale non mi sono nemmeno sprecato a fare una foto perché se ne trovano a palate, per esempio qui, qui, qui.
Tra parentesi, sfido chiunque a trovare tutti e 9 i cavalli, la potevano chiamare la montagna delle nove macchie di Rorschach ed era uguale.
Tutto sommato un bel posto, mi spiace solo di non avere avuto abbastanza tempo per approfondire tutte le altre amenità del posto, come i pescatori con i cormorani, scalata delle montagne &c; sarà per la prossima gita.
La mappa ora è un po’ più aggiornata.

viaggio

All’inizio di ottobre in cina c’è stata la festa della Repubblica 国庆节 (Guóqìngjié) e subito dopo la festa di Mezzo Autunno 中秋节 (Zhōngqiūjié), dando origine ad un impressionante ponte festivo protrattosi per ben 8 giorni, una cosa mai vista.
Noi ne abbiamo approfittato per fare un viaggio in macchina con amici; in tutto eravamo 4 adulti e 2 bambini, entrambi di un anno e mezzo.
Abbiamo fatto più di 2000 Km partendo da 惠州 (Huìzhōu) e andando a nord verso 阳朔 (Yángshuò) nel 广西 (Guǎngxī), poi su ancora verso il 贵州 (Guìzhōu) a 肇兴 (Zhàoxīng), passando poi per 桂林 (Guìlín) e infine ritorno a casa.
Sto incominciando a mettere in ordine il milione di foto che abbiamo fatto; sto anche preparando una mappa dell’itinerario percorso su Google Maps (per ora c’è solo un pezzo dell’andata).
Pian piano vedrò di fare un resoconto dettagliato dei singoli posti.

dolcetti

Si è già parlato di 月饼 (yuèbǐng) in due occasioni.
Visto che siamo nella stagione giusta, quest’anno vorrei aggiungere un paio di cosucce divertenti.
La prima è che invece di regalare i dolcetti veri e propri, è molto molto meglio regalare le cosiddette 月饼卡 (yuèbǐng kǎ), dei buoni che permettono a chi riceve il regalo di andare a ritirare 月饼 freschi freschi al momento del bisogno.
Si evita in questo modo di accumulare scatole su scatole di roba che alla fine poi va a male, e ci sono alti funzionari che ricevono puntualmente STANZE intere di regali!
Poi, tenere presente che ci sono delle organizzazioni che raccolgono questi buoni e li rivendono con un piccolo guadagno; spesso sono le stesse pasticcerie che emettono i biglietti.
Esempio: io ho un buono per ritirare 300 RMB di dolcetti.
I dolcetti non mi piacciono, allora rivendo il buono alla pasticceria per 150 RMB.
Un’altra persona vuole risparmiare sui regali e ricompra il buono dalla pasticceria per 160 RMB per poi darlo in regalo a qualcun altro.
Tutti contenti!

memo

Memo to self: evitare il ripetersi di situazioni come quella di oggi.
Background: qualche settimana fa arriva nel mio ufficio una delegazione di colleghi dall’ufficio commerciale a chiedere una modifica ad un certo report.
Il report in questione fornisce dei dati relativi ai clienti dell’azienda, e questi dati devono venire raggruppati in una maniera invece che in un’altra.
Io mi segno tutto, faccio qualche domanda, mi chiarisco cosa va fatto e assicuro la fattibilità della faccenda.
I colleghi apparentemente soddisfatti se ne vanno.
In seguito organizzo e distribuisco il lavoro, in realtà si tratta di una cosa molto semplice.
Poi verifico i risultati, sistemo un po’ di cose, eccetera, fino ad arrivare ad una versione che ritengo soddisfacente.
Qui arriva la parte divertente: scrivo una bella email alle persone interessate, ma non ottengo risposta.
Il giorno dopo scrivo con Skype alla responsabile dell’ufficio in questione : “Allora, hai letto la mia mail?”
Lei: “Si. Certo. Infatti volevo proprio parlarti di questo.”
Me: “Hai visto che ho fatto quello he mi avevate chiesto?”
Lei: “In effetti non capisco a cosa tu ti riferisca… Non sarebbe meglio fare il raggruppamento così invece che cosà?”
Me: “Guarda che non è quello che mi avete chiesto l’altra volta.  Ti ricordi?  Eravate venuti nel mio ufficio: tu, collega X, collega Y, Z e W.”
Lei: “Il fatto è che uno stesso cliente appartiene a più raggruppamenti, bisogna verificare ogni singolo ordine.”
Me: “Vengo da te.”
Vado là e mi devo misurare con il temuto sguardo da scimmia lobotomizzata, terrore e ruina dello straniero in terra Cinese.
Le faccio vedere tutta la procedura: il report come era prima, cosa modificare, cosa succede dopo, eccetera.
Purtroppo l’espressione della signorina, peraltro carina e intelligente, non muta.  Questo mi preoccupa perché solitamente è una persona abbastanza brillante.
Io: “Ma non ti ricordi?  Dicevate che un cliente può lavorare come terzista per conto di altri, e allora bla, bla, etc, etc, …”
A quel punto sul suo viso si accende un faro alogeno da 500 Watt: “Ah, tu intendi QUESTO!”
Segue un balletto di felicità condito da molte pacche sulla fronte.
“Bene, bene, ho capito, grazie, adesso faccio tutto io.”
Morale:
Facendo il lavoro che faccio, non posso fare a meno di domandarmi: “Come si può fare per evitare di ricadere in una situazione del genere?”

  1. Quando si prende una commessa, evitare di farlo in forma orale: pretendere una comunicazione scritta.
  2. Se proprio non c’è verso, allora scrivere una mail follow-up con dentro: “In seguito alla conversazione in data odierna, mi appresto a fare questo e quello.”
  3. Assegnare un codice identificativo per il lavoro, tipo “Raggruppamento clienti terzisti”.
  4. Periodicamente ricordare ai committenti l’esistenza della commessa, anche solo quando li si incontra nel corridoio: “Ah, sto facendo il ‘Raggruppamento clienti terzisti’, è quasi finito, eh!”
  5. Alla fine mandare una bella comunicazione scritta e invitare tutti anche solo per cinque minuti a vedere di persona il portento.

Però tutti questi punti riguardano la faccenda solo dalla mia parte.
Così vuol dire fare il “mammo” dei colleghi, prenderli per la manina e accompagnarli in giro, partendo dal presupposto che abbiano una memoria da pesce rosso.
D’altra parte non me la sento di istituire un sistema di modulistica, firme e controfirme per gestire delle cose così banali.
Bah, non ne vengo fuori.

caldo

Caldo.
Fa un caldo impossibile.
Fa così caldo che le galline fanno le uova sode.
Fa così caldo che quando comperi un gelato lo devi mangiare in un boccone se no si scioglie.
Scherzi a parte, se stai all’ombra sdraiato nudo, sudi comunque abbondantemente.
La mia prima esperienza di caldo asiatico è stata durante il mio primo viaggio in Cina, nello 浙江 (Zhèjiāng), per la precisione ad 杭州 (Hángzhōu).
Allora nelle case non c’erano i condizionatori, al massimo si potevano trovare i ventilatori, molto spesso dei modelli in ghisa con l’asse rigorosamente scentrato, i quali appoggiati al pavimento di legno che faceva da cassa acustica creavano un rimbombo da farti credere di avere un cacciabombardiere in casa.
Un giorno l’amico cinese che mi ospitava mi portò a trovare un suo ex compagno di scuola che lavorava in un ospedale.
Costui lavorava su di un’apparecchiatura tedesca che doveva stare a temperatura costante, per cui veniva tenuta in ambiente condizionato e isolato, al quale si accedeva attraverso una serie di porte a tenuta stagna.
Noi eravamo arrivati in bicicletta sotto un sole da squaglare le pietre, e una volta entrati mi ritrovai incredulo ad attraversare queste porte dove l’aria era sempre più fresca, fino ad arrivare ad una paradisiaca temperatura di 20 ºC.
Il tizio poi ci offrì bottigliette di acqua fredda, articolo allora di lusso. Mi sentivo perfettamente a posto.
Il problema fu all’uscita, quando porta dopo porta venivo assalito da folate di aria sempre più rovente che mi faceva presagire l’inferno al quale stavo ritornando.
All’uscita, mi sembrava che mi avessero colato del piombo nelle scarpe; i vestiti mi si erano appiccicati addosso.
Barcollando sul cemento del piazzale screpolato dal sole a picco, andai a riprendermi la bicicletta, e lentamente mi avviai a zig-zag verso casa dove almeno c’era il mio cacciabombardiere privato ad aspettarmi.
Comunque il caldo più insopportabile di cui abbia mai fatto un’esperienza diretta è stato in Giappone, nel 2003. I miei attenti lettori si ricorderanno che quell’anno l’Italia era stata colpita da una notevole ondata di caldo.
Io credendomi furbissimo mi ero organizzato per trascorrere l’intero mese di Agosto in Giappone, contando sul fatto che la stagione delle piogge fosse già finita.
E invece mi toccò la stagione delle piogge anomala, che si protrasse ben oltre i limiti soliti dello 梅雨明け (つゆあけ) “fine della stagione delle piogge” e venne a sovrapporsi fastidiosamente su buona parte della mia vacanza-studio.
Ad un certo punto comunque un amico giapponese venne a trovarmi e mi invitò a trascorrere il weekend a casa sua, a 3 ore di treno da Tokyo.
Tutto gasato mi apprestai ad assaporare la realtà giapponese, nonostante il mio amico di fronte a tanto entusiasmo si fosse sentito in dovere di avvisarmi che la città era molto piccola.
“Bene, più piccola è e meglio è”, risposi.
In effetti poi per arrivare a casa sua mi fece passare in un viottolo fangoso attraverso una risaia.
Allibito gli dissi che ritenevo dovesse esserci una strada più ortodossa per arrivare a casa sua.
“C’è ma è più lunga, io passo sempre di qui”, mi rispose.
Arrivati a casa ormai era sera tardi, per cui cenammo frugalmente e ce ne andammo a dormire.
Il giorno dopo ero elettrizzato dall’idea di andare fuori in esplorazione, al che ci fu una conversazione che mi sembra di ricordare così: “外には何もない Fuori non c’è niente.”, mi disse.
“インポシブル、何もないは不可能だ Impossibile, ci deve essere qualcosa.”, ribattei.
“小さいレークがいます C’è un piccolo lago.”
“行って看てよ Andiamo a vedere.”
“あなたの気 Come vuoi.”
La stagione delle piogge anomala unita alla canicola africana della piatta campagna giapponese e con la complicità di un acquazzone proprio quella mattina, aveva portato l’umidità a valori astronomici.
Per cui se c’erano 43 gradi, la temperatura percepita sarà stata di 52 o oltre.
Tralasciando spudoratamente il fattore umidità, “Tzè”, mi dissi, “Io sono stato nel Taklamakan! Cosa vuoi che mi faccia un po’ di caldo nipponico.”
Appena usciti di casa, dopo poche dozzine di metri stavo ansimando come un bulldog ed avevo difficoltà di respirazione.
Solo uno sforzo di volontà mi fece arrivare all’infame pozzanghera quando, ormai sudato come un cavallo, non stavo più in piedi ed ero sulla soglia dello svenimento.
In tutto sarà stato un percorso di 300 metri.
Il previdente amico aveva portato un bel bottiglione d’acqua che mi salvò la vita sulla strada del ritorno.
A seguito dello shock termico mi ritrovai poi con una bella diarrea, fortunatamente risoltasi dopo una ostinata permanenza nell’unica sala con condizionatore della sua casa (nonché frequenti puntate in bagno).
Qui nel Guangdong di oggi il problema è ben più insidioso, perché aggravato dal fattore aria condizionata.
La regola base è che il condizionatore va sempre regolato al massimo, provocando sbalzi termici di una trentina di gradi tra esterno e interno, cosa che può diventare pericolosa se per esempio sei giro per negozi.
Una volta uno mi aveva detto che siccome una volta il condizionatore ce l’avevano solo i ricchi, era diventato uno status symbol, e più freddo uguale più status; poi tutti hanno incominciato ad averlo, instaurando un circolo vizioso dalle conseguenze disastrose.
In certi ristoranti di lusso a chi proprio non ce la fa più vengono distribuiti degli scialli per proteggersi dalle correnti d’aria gelata.
Se disgraziatamente si è costretti a dover prendere un taxi, si può essere sicuri che si scenderà dalla macchina con il moccio al naso, a meno che non si vada in giro con il “maglioncino tattico”, articolo indispensabile nei periodi di calura intensa.
I locals sembrano non soffrire della situazione, almeno non ufficialmente perché comunque ogni tanto si sente che qualcuno si è presa la 空调病 (kōngtiáo bìng), la “malattia del condizionatore” (raffreddoris vulgaris).

esperto

In Italia e penso in tutto il mondo è sempre esistito lo stereotipo del cinese che inizia le frasi con “Confucio dice” (孔子曰 Kǒngzǐ yuē, e attenzione a non confondere 日 con 曰).
È vero che in questi ultimi anni Confucio è tornato di moda in Cina, grazie ad alcuni divulgatori moderni, prima tra tutte la mitica 于丹 (Yú Dān).
Però oggi nessuno in Cina dice “Confucio dice”, per ragioni secondo me solidissime.
Il fatto è che la cultura e tradizione confuciana sono talmente insite nell’animo dei cinesi e della loro società, che non c’è nessuna necessità di dirlo.
Comunque il bisogno di riferirsi ad una autorità superiore è sempre presente; in fondo siamo tutti umani, no?
Ecco quindi che fa la sua comparsa lo “scienziato cinese”, o “esperto”.
Questa fantomatica figura può spuntare all’improvviso in qualsiasi conversazione, ispirandosi alle peggio leggende metropolitane e facendole assurgere al livello di verità incontrovertibili.
Oggigiorno i cinesi hanno facile accesso a una quantità di informazioni, e non voglio stare a discutere di censura eccetera perché non è questa la sede adatta. Io mi riferisco alla quotidianità, ai forum di cucina su internet, alle riviste sulle bancarelle, ai programmi che ascolto alla radio quando vado in ufficio la mattina in macchina.
Cito un esempio che ho vissuto sulla mia pelle quando cercavo casa: la regola del settimo piano.
Non si sa quale “scienziato cinese” ha stabilito che le polveri del traffico stradale vengono portate dal vento e si depositano al settimo piano dei palazzi.
Quale scienziato? Come è arrivato a questa stupefacente conclusione?
Perché non il sesto o l’ottavo?
Differenti esposizioni ai venti o ai punti cardinali possono cambiare questa triste condizione?
Palazzi in centro oppure in periferia? Mare e montagna?
Nessuna osservazione ha potuto far tentennare la granitica convinzione della mia amata moglie, inammovibile come il dente del giudizio nella mascella di un caimano.
A questo aggiungiamo che il quarto piano è proibito perché il numero 4 porta male, e così pure il 14 e il 24, poi il 13 e il 17 portano male in Occidente, il primo e il secondo sono troppo bassi, l’ultimo piano no perché d’estate fa troppo caldo, eccetera.
Ecco qui un delizioso quadretto della Cina di oggi: sapienza antica, scienza moderna, superstizioni, influssi dall’occidente, tutto assieme.
Per la cronaca, alla fine abbiamo messo su casa al sesto piano.
Se ne sentono di tutti i colori: l'”esperto (专家 zhuānjiā)” ti dice a che temperatura devi mettere il condizionatore la notte e per quante ore lasciarlo acceso; cosa come e quando mangiare in base alla stagione; se devi tenere in braccio tuo figlio verticale oppure orizzontale, &c.
Il tutto condito con la solita retorica pseudocomunista, ragionamenti da vecchie comari e prove del nove del tutto tautologiche.
Però non c’è niente da fare, anche quando riesci a stringere il tuo interlocutore in un angolo e a dimostrare che sono tutte fanfaluche, questo assume un’aria contrita, come se stesse contemplando la rovinosa caduta di tutti i valori nei quali aveva creduto per tutta la vita, primo fra tutti che la Cina di oggi sta per fare finalmente vedere i sorci verdi a tutte le altre nazioni del mondo.
Non c’è soddisfazione in una vittoria del genere, e soprattutto non vale la pena prendersela per qualcosa che ti potrebbe mettere il bollino di “critico nei confronti della gloriosa superiorità della Terra di Mezzo”.
Per cui quando qualcuno se ne esce con “L’esperto dice…” incomincio subito ad annuire e magari poi dico “Ma sai che noi in Occidente non ci avevamo mai pensato?”

expats

Recentemente parlavo con un amico delle scelte di vita che avevamo fatto.
Anche lui vive in Cina, nella stessa mia città.
Più o meno l’argomento erano i progetti per il futuro, conseguenti timori e paure, etc…
Tra le altre cose è uscito anche il discorso dello shock culturale inverso, un fatto da considerare quando si decide di andare a vivere all’estero.
Penso che quanto emerso sia utile anche a chi mi chiede come si fa a venire a vivere in Cina.
La vera domanda da porsi prima di prendere una decisione del genere è: “Per quanto tempo?”
Personalmente io abito in Cina da quasi tre anni ormai, e devo dire che non ho mai preso seriamente in considerazione l’idea di tornare in Italia.
Ho compiuto sforzi titanici per imparare la lingua, e ho imparato cose che sono utili solo qui, quindi non avrebbe senso tornare.
Nota bene: è stato tutto intenzionale, parte di un progetto di vita che ora sta dando i suoi frutti.
Certo, mi manca l’Italia, ma qui sono a posto, famiglia e tutto.
Starò qui per sempre, magari cambierò lavoro passando da una azienda straniera ad un’altra.
Conosco gente che condivide questo stesso punto di vista, spesso chiamato “Cina per sempre”.
Qualcun altro ha fatto due anni in un Paese, poi tre in un altro, e così via per un sacco di tempo; questo è completamente diverso, non è “Cina per sempre” e non è questa la sede per parlarne.
C’è comunque un qualcosa che accadrà sicuramente a chi va all’estero per qualche anno e poi torna a casa: si sentirà spaesato.
Ho sempre pensato che un “expat” fosse qualcuno che ad un certo punto decide di vivere all’estero punto e basta. Quelli che vanno all’estero per un paio d’anni e poi tornano a casa sono qualcos’altro, come dire? “Expat temporanei”?
Detto questo, vorrei puntualizzare che chiaramente le ragioni e le aspettative di un expat temporaneo sono diverse da quelle di uno a lungo termine, però a me sembra logico che se uno va all’estero per un periodo e poi torna a casa, c’è da aspettarsi che sia necessario fare un po’ il punto della situazione.
Morale: prima di scapicollarsi all’estero, bisogna pensare anche al dopo, o quanto meno mettere in conto certi fatti fin dall’inizio.
È un dato di fatto che le persone cambiano con l’esperienza; quando uno vive all’estero la sua personalità si allontana da quella delle persone che sono rimaste a casa proprio perché le esperienze sono differenti.
Bisogna considerare a cosa può accadere alla propria vita privata, nel bene e nel male.
Una volta tornati dall’assignment, se si è americani ci si può aspettare corsi di aggiornamento per expat o qualcosa del genere proprio per evitare questo tipo di shock.
Se si è italiani, campa cavallo… sei già fortunato se l’azienda dove lavoravi esiste ancora.