ristoranti

Per chi abita lontano dal Paese dei Cachi, dalle sue meraviglie e dalle sue nefandezze, è sempre un piacere ricevere ospiti da casa.
Che si tratti di parenti, amici, colleghi in trasferta, clienti oppure megadirettori galattici, ogni occasione è buona per stare un po’ insieme e fare quattro chiacchere.
E in queste situazioni prima o poi si finisce sempre con le gambe sotto al tavolo, cosa sempre gradita, ma che può anche celare qualche insidia (se no non ci facevo un post).
Non me ne vogliano i compatrioti “urbanites” di Shanghai o altre città di primo livello, dove ci sono delle pizzerie che sembra di essere proprio in Italia “tale e quale”, anzi a volte la pizza è decisamente superiore alla media italiana! (purtroppo anche i prezzi, ma si sa… una volta ogni tanto…)
Nella Cina “normale”, la quantità di ristoranti occidentali decresce in proporzione del cubo della distanza da quelle che io chiamo “theme park cities”: Pechino, Shanghai e Shenzhen, e lasciamo perdere Hong Kong perché con La Cina c’entra proprio poco.
Nel resto dell’impero la location è determinante per il tipo di esperienza che si riesce ad ottenere.
Certo, in qualcuna delle altre grandi città ci sono comunque ristoranti occidentali di tutto rispetto, comprese anche steak house di buon livello.
Supponiamo anzi di andare proprio alla steak house, animati da belle speranze e buoni propositi, e soffusi da un generale senso di euforia dato dalla consapevolezza di stare vivendo un’esperienza un po’ diversa dal solito riso bianco, verdure bollite e zampe di pollo.
Ambiente carino, luci soffuse, arredamento in ordine, nessuno che sputa per terra; uno magari comincia a rilassarsi ed abbassare la guardia.

STEAK HOUSE

Ecco che incominciano le prime avvisaglie di tempesta: qui in Cina quando uno ordina una bistecca, per prima cosa si sente rivolgere la seguente domanda: “几成熟 (jīchéngshú)?”
Si deve anche tenere presente che di solito le cameriere anche nei migliori ristoranti parlano a velocità supersonica, solitamente con la bocca chiusa e guardando da un’altra parte, mentre gli altri avventori berciano a pieni polmoni e probabilmente anche con il sottofondo di una soap opera alla TV.
Non ci si deve stupire quindi se la prima volta che mi sono sentito rivolgere questa domanda sono rimasto un po’ perplesso, e mi sono apparse delle impercettibili goccioline di sudore.
Alla mia richiesta di spiegazioni la cameriera ha fatto una faccia da sospensione delle funzioni cognitive e non ha spiccicato parola per qualche secondo.
Tutto regolare: il popolo dei camerieri cinesi rappresenta egregiamente l’attitudine degli abitanti del Celeste impero nei confronti del lavoro dipendente in generale. Mi rendo conto che ad un occidentale impreparato il concetto può sembrare alieno, ma il cameriere ragiona per compiti ben definiti e limitati, ripetendo a macchinetta una serie di azioni senza pensare e con il minor impiego di forze possibile.
Spiegare a qualcuno il significato di certe frasi fatte non rientra nei loro compiti, e lo sforzo di accendere il cervello che era stato spento come sempre a inizio turno è seplicemente inconcepibile.
Fortunatamente quel giorno un altro collega cinese lì presente, vedendo che incominciavo a cambiare colore, pensò bene di darmi l’imbeccata spiegandomi che la cameriera aveva chiesto quanto volevo fosse cotta la mia bistecca.
Probabilmente impietosito dall’inarcarsi delle mie sopracciglia mentre annaspavo cercando di tradurre termini come “ben cotta” o “al sangue”, mi diede anche indicazioni sulla risposta: in questi casi si deve comunicare un numero da zero (cruda) a dieci (carbonizzata).
Risolto il primo empasse, seguì quindi la seconda insidiosa domanda: “要什么酱 (yào shénme jiàng)?”
Bisogna a questo punto capire che la bistecca nel Far East è considerata un piatto insipido, e per dargli sapore è fondamentale corpargerla di salsa; le più diffuse sono 蘑菇酱 (mógu jiàng) “funghi”, 黑椒酱 (hēijiāo jiàng) “pepe nero” e 烤肉调味酱 (kǎoròu tiáowèi jiàng) “barbecue”.
Mai fare l’errore di dire che si vuole la salsa separata dalla bistecca: questo tipo di informazione viene regolarmente inghiottito dal buco nero che ruota sornione sospeso a metà tra i tavoli della sala e le cucine, e quindi la salsa apparirà regolarmente sopra alla bistecca (a meno di andare di persona nelle cucine a seguire la preparazione).
C’è tuttavia una soluzione, una pepita d’oro, una “silver bullet” per ovviare a questo problema: basta dire che si vuole 原味 (yuánwèi) “sapore originale”; è un termine che fa parte del vocabolario di 60-70 parole a disposizione della cameriere durante il turno di lavoro, per cui ha un’efficacia concreta.
Il terzo scoglio della barriera corallina posta a difesa dell’agognata bistecca è rappresentato dal contorno.
Tenendo bene a mente che non ci si trova in America, si potrà scegliere tra spaghetti o riso.
Se si vogliono le patatine fritte, bisognerà ordinarle a parte dicendo “配薯条 (pèi shǔtiáo)”; bisogna anche specificare 番茄酱 (fānqiéjiàng) “ketchup”, mentre una grossa delusione aspetta invece chi gradisce la mostarda senape (in inglese mustard).
Non esiste infatti un termine che identifichi univocamente questo prodotto; si può provare con 黄芥末 (huáng jièmo), un termine che più o meno si avvicina, ma si rischia di vedersi recapitare del wasabi o altre cose che non c’entrano niente.
I più avventurosi possono provare a cercare di spiegare che si tratta del ricavato della spremitura dei 芥子 (jièzǐ) “semi di senape” più altri condimenti, praticamente un 芥末 di colore giallo, ma si rischia di sconfinare nel campo minato delle interpretazioni personali della cameriera, quindi: attenzione.
E ora… Buon appetito!
Ma dico subito che comunque la steak house, a confronto di certe altre esperienze di cui parlerò più diffussamente in un prossimo post, è una passeggiata di salute.

tacchini

Oggi è il primo di Gennaio, e per una volta nella vita vorrei iniziare il nuovo anno con dei buoni propositi.
Anzi, un solo proposito: cercare di non farmi venire il sangue acido a causa di certi comportamenti ai quali purtroppo assisto quotidianamente.
Per esempio quando sono in coda e qualche abitante della Terra di Mezzo mi passa davanti dandomi uno spintone senza nemmeno guardarmi.
Allo stesso modo, cercherò, di non saltare in aria come una mina antiuomo nelle quotidiane situazioni nelle quali per salvare la faccia si perdono intere giornate. (Proprio ieri in banca ho dovuto assistere a una cinquantina di telefonate a vari capi e capetti per chiedere autorizzazione a fare una cosa che poi è risultato tutti sapevano sin dall’inizio che non si poteva fare)
Oppure cercare di non rabbuiarmi quando in macchina qualcuno mi taglia la strada rischiando di venirmi addosso, cosa che purtroppo capita tutti i giorni almeno un paio di volte al minuto risultando in una rabbuiatura perenne.
Oppure cercare di non sbuffare quando un collega viene a chiedere a me di parlare con il suo vicino di scrivania perché ritiene che lui non ci possa parlare avendo lui altre responsabilità e non avendo l’autorità necessaria, risultando in una continua perdita di tempo trascorso a fare il portavoce di infinite lagne.
Ormai si sarà già capito il senso generale del post, e a questo punto potrà risultare significativa la storia del pollo e del tacchino.
Tutti sanno dei galli da combattimento, e di come sia diffusa in certi paesi la pratica di aizzarli l’uno contro l’altro per farli combattere fino all’ultimo sangue.
Bisogna sapere che anche i più mansueti tacchini, alla vista di un potenziale rivale in amore, sentono ribollire il sangue; e anche loro ricorrono alla violenza per risolvere la questione.
Ai panciuti volatili però l’evoluzione ha fornito un sistema per evitare di incorrere in esagerati sprgimenti di sangue.
Nella fattispecie, quando il tacchino più debole sente che la disfatta è prossima, poggia la testa a terra ed offre il collo indifeso all’avversario.
A questo punto il vincitore capisce di avere ottenuto la meglio e non si accanisce ulteriormente, lasciando l’avversario con l’onta della sconfitta e la possibilità di riprendersi, e magari cercare in futuro un’occasione più propizia.
Se però si mettono assieme un gallo e un tacchino, cosa succede?
I due animali sono abbastanza simili per potersi scambiare i segnali riguardanti l’inizio del combattimento, per cui si azzufferanno a prima vista.
Il tacchino pur essendo più grosso del gallo è anche più pesante e meno agile, per cui generalmente ha la peggio.
Le affinità che hanno scatenato l’inizio del combattimento però arrivano solo fino ad un certo punto; il tacchino infatti seguendo il suo proprio codice di comportamento offrirà il collo al gallo.
Purtroppo l’istinto del gallo non prevede questa possibilità e anzi vista la possibilità di colpire una parte vulnerabile, continuerà ad infierire sullo sconfitto.
Il povero tacchino sentendosi sempre più inferiore si appiattirà sempre di più per terra, ed il gallo finirà per ammazzarlo in maniera molto truculenta.
Ecco in sintesi quello che succede quando un omino bianco si tuffa nella folla urbana delle città cinesi: li sistema di valori e consuetudini che lo ha assistito per tutta la vita viene a confrontarsi con un universo differente.
Molte delle cose che dava per scontate non avranno più senso, e molte delle normali abitudini che incontrerà sul suo cammino gli sembreranno assurde.
Inutile accanirsi nel comportarsi come si è stati cresciuti, se non si vuole fare la fine del tacchino; meglio rassegnarsi e cercare di adattarsi alla situazione.
Per cui se qualche conterraneo disperso in Cina avrà la ventura di vedermi passare accanto, non si stupisca se mi sentirà mormorare senza posa una specie di mantra: “Polli e tacchini, polli e tacchini”.
Anzi lo consiglio a chi si trovi nella mia stessa situazione; a me giova molto.