nomi

L’altro giorno (come fanno gli anziani) rimembravo il passato dialogando con un compare (altrettanto anziano, quasi quanto me), e il discorso volse su storielle riguardanti la nascita dei figli.
Il mio primogenito è nato nel 广东 (Guǎngdōng) “Guangdong”, in un ospedale cinese 100%, tanto per fare un distinguo con i figli dei ricchi che invece vanno a nascere nelle cliniche private con i dottori che parlano inglese.
Insomma a fine lavori si presentò il fatidico momento della burocrazia, e nonostante fossi in piena crisi da sleep deprivation mi condussero in un ufficio dove un’affabile impiegata seduta davanti ad un orrido computer degli anni ’80 con Windows XP mi interrogò nonostante fosse evidente che non ero in condizioni di intendere e volere.
La signorina tutta tranquilla aprì un qualche tipo di programma con in cima scritto “Certificato di nascita”.
«Qual’è il nome?» mi chiese (in logogrifi, che non sto a ripetere in questa sede).
Io per un attimo mi riscossi dal torpore (sembrava che Harry Potter mi avesse fatto “Stupefy!”) e riuscii a biascicare la risposta corretta: «Valentino, V-A-L-E-N-T-I-N-O».
Attimo di silenzio e sguardi obliqui tra i presenti.
Qui ricevetti il primo scossone, che ebbe l’effetto di farmi riavere dallo stupore. «Non si può», fu il tombale responso.
«Come non si può? Perché?»
«Non ci sta. È troppo lungo.»
A questa uscita lo stupore era passato, sostituito dalla solita nebbia rossa omicida.
«Come non si può? Potrò ben decidere che nome dare a mio figlio, no?»
«Vede caro signore evidentemente male informato dalla propaganda capitalista, in Cina i nomi sono formati da tre caratteri di cui …»
A questo punto mi ero risvegliato del tutto.
«Lo SO BENISSIMO come sono i nomi dei cinesi, visto che ho sposato una di voi. Solo che non ci credo che nel vostro fetente computer pescato dal cassonetto non ci sia lo spazio per scrivere un nome occidentale.»
«Guardi pure,» fu la ieratica risposta.
«Mumble mumble» questo era il sottofondo dei commenti dei presenti, liberamente traducibile con «Guarda ‘sti zozzoni di stranieri che vengono a comandare nel sacro Impero, ce arrubbano er lavoro, magnano cacano e se lamentano pure.»
Guardai lo schermo dove campeggiava un disegno del certificato di nascita; in effetti volendo lo spazio ci sarebbe stato, ma il campo di inserimento corrispondente permetteva solo tre caratteri.
Sembrava che le opzioni fossero ridotte a “Ugo”, non è che non mi piacesse ma avevamo già deciso da tempo per “Valentino”, e poi va bene diciamocelo lo ammetto, a me “Ugo” proprio non piace.
A quel punto, la divina ispirazione (con lampadina sulla testa).
«Questo serve a mandare i dati all’anagrafe per via elettronica oppure è solo per stampare il certificato?»
Attimo di imbarazzo, come quando il proverbiale granello di sabbia fa inceppare il complicatissimo meccanismo messo a punto con grande fatica dal cattivo del film.
«Questo è solo per stampare, poi mandiamo una copia all’anagrafe» (erano altri tempi…)
Un sorriso sempre più largo mi si stava intanto disegnando sul volto.
«Come facevate quando non c’era il computer?»
«Lo scrivevamo a mano», fu costretta ad ammettere la signorina col tono rassegnato di chi vede incombere la sconfitta.
«Ecco fatto! Scrivete a mano anche questo così ce lo fate stare.»
Morale: ce n’è voluta ancora un po’ a convincerli, ma mio figlio non ha dovuto chiamarsi Ugo (sorry a tutti gli Ughi del mondo ma ahò, se non mi piace non mi piace, non ci posso far niente).

Azoto

L’altro giorno uno dei nostri va a fare l’ispezione in fabbrica e controlla alcuni doppi vetri che in passato avevano avuto dei problemi.
L’ispettore viene sempre seguito da un rappresentante della fabbrica, il quale segue le operazioni e in teoria dovrebbe accertarsi che venga fatto tutto come si deve; in pratica invece fa da parafulmine umano quando qualcosa va storto (quasi sempre).
Insomma ad un certo punto l’ispettore chiede al tizio cinese: «Attenzione a sigillarli bene questi vetri, se no esce l’azoto.»
Segue un sospettissimo silenzio del tizio cinese.
Allora il nostro uomo chiede: «Perché se no esce l’azoto che c’è dentro, no?»
Altro sospetto silenzio del cinese stavolta concomitante ad uno sguardo obliquo verso l’uscita dal capannone, curiosamente simile all’atteggiamento di qualcuno che stia pensando al percorso migliore per una fuga precipitosa.
«Dentro c’è l’azoto al 99% come abbiamo chiesto, vero?»
Il cinese, esaminandosi le unghie: «Ssiiiiiii…..»
«Come ssssiiiiiii, c’è o non c’è?»
«In pratica sì, l’azoto c’è»
«Come, ‘in pratica’? O l’azoto c’è, oppure non c’è, delle due l’una!»
«Ce n’è più di tre quarti.»
Morale: siccome la normale aria è composta dal 78% di azoto, i tecnici della fabbrica avevano deciso che così era più che sufficiente, senza considerare gli indubbi vantaggi quali non dover perdere tempo a maneggiare pesanti bombole e preoccuparsi del sigillante, perdite e chissà quali altri fastidiosi inconvenienti.
In fondo che cosa potrà mai succedere con una differenza del solo 21% rispetto alle specifiche, riguardanti per altro un banale (ma costoso) gas inerte quando sappiamo tutti che l’isolante perfetto è il vuoto etc… etc…