caldo

Caldo.
Fa un caldo impossibile.
Fa così caldo che le galline fanno le uova sode.
Fa così caldo che quando comperi un gelato lo devi mangiare in un boccone se no si scioglie.
Scherzi a parte, se stai all’ombra sdraiato nudo, sudi comunque abbondantemente.
La mia prima esperienza di caldo asiatico è stata durante il mio primo viaggio in Cina, nello 浙江 (Zhèjiāng), per la precisione ad 杭州 (Hángzhōu).
Allora nelle case non c’erano i condizionatori, al massimo si potevano trovare i ventilatori, molto spesso dei modelli in ghisa con l’asse rigorosamente scentrato, i quali appoggiati al pavimento di legno che faceva da cassa acustica creavano un rimbombo da farti credere di avere un cacciabombardiere in casa.
Un giorno l’amico cinese che mi ospitava mi portò a trovare un suo ex compagno di scuola che lavorava in un ospedale.
Costui lavorava su di un’apparecchiatura tedesca che doveva stare a temperatura costante, per cui veniva tenuta in ambiente condizionato e isolato, al quale si accedeva attraverso una serie di porte a tenuta stagna.
Noi eravamo arrivati in bicicletta sotto un sole da squaglare le pietre, e una volta entrati mi ritrovai incredulo ad attraversare queste porte dove l’aria era sempre più fresca, fino ad arrivare ad una paradisiaca temperatura di 20 ºC.
Il tizio poi ci offrì bottigliette di acqua fredda, articolo allora di lusso. Mi sentivo perfettamente a posto.
Il problema fu all’uscita, quando porta dopo porta venivo assalito da folate di aria sempre più rovente che mi faceva presagire l’inferno al quale stavo ritornando.
All’uscita, mi sembrava che mi avessero colato del piombo nelle scarpe; i vestiti mi si erano appiccicati addosso.
Barcollando sul cemento del piazzale screpolato dal sole a picco, andai a riprendermi la bicicletta, e lentamente mi avviai a zig-zag verso casa dove almeno c’era il mio cacciabombardiere privato ad aspettarmi.
Comunque il caldo più insopportabile di cui abbia mai fatto un’esperienza diretta è stato in Giappone, nel 2003. I miei attenti lettori si ricorderanno che quell’anno l’Italia era stata colpita da una notevole ondata di caldo.
Io credendomi furbissimo mi ero organizzato per trascorrere l’intero mese di Agosto in Giappone, contando sul fatto che la stagione delle piogge fosse già finita.
E invece mi toccò la stagione delle piogge anomala, che si protrasse ben oltre i limiti soliti dello 梅雨明け (つゆあけ) “fine della stagione delle piogge” e venne a sovrapporsi fastidiosamente su buona parte della mia vacanza-studio.
Ad un certo punto comunque un amico giapponese venne a trovarmi e mi invitò a trascorrere il weekend a casa sua, a 3 ore di treno da Tokyo.
Tutto gasato mi apprestai ad assaporare la realtà giapponese, nonostante il mio amico di fronte a tanto entusiasmo si fosse sentito in dovere di avvisarmi che la città era molto piccola.
“Bene, più piccola è e meglio è”, risposi.
In effetti poi per arrivare a casa sua mi fece passare in un viottolo fangoso attraverso una risaia.
Allibito gli dissi che ritenevo dovesse esserci una strada più ortodossa per arrivare a casa sua.
“C’è ma è più lunga, io passo sempre di qui”, mi rispose.
Arrivati a casa ormai era sera tardi, per cui cenammo frugalmente e ce ne andammo a dormire.
Il giorno dopo ero elettrizzato dall’idea di andare fuori in esplorazione, al che ci fu una conversazione che mi sembra di ricordare così: “外には何もない Fuori non c’è niente.”, mi disse.
“インポシブル、何もないは不可能だ Impossibile, ci deve essere qualcosa.”, ribattei.
“小さいレークがいます C’è un piccolo lago.”
“行って看てよ Andiamo a vedere.”
“あなたの気 Come vuoi.”
La stagione delle piogge anomala unita alla canicola africana della piatta campagna giapponese e con la complicità di un acquazzone proprio quella mattina, aveva portato l’umidità a valori astronomici.
Per cui se c’erano 43 gradi, la temperatura percepita sarà stata di 52 o oltre.
Tralasciando spudoratamente il fattore umidità, “Tzè”, mi dissi, “Io sono stato nel Taklamakan! Cosa vuoi che mi faccia un po’ di caldo nipponico.”
Appena usciti di casa, dopo poche dozzine di metri stavo ansimando come un bulldog ed avevo difficoltà di respirazione.
Solo uno sforzo di volontà mi fece arrivare all’infame pozzanghera quando, ormai sudato come un cavallo, non stavo più in piedi ed ero sulla soglia dello svenimento.
In tutto sarà stato un percorso di 300 metri.
Il previdente amico aveva portato un bel bottiglione d’acqua che mi salvò la vita sulla strada del ritorno.
A seguito dello shock termico mi ritrovai poi con una bella diarrea, fortunatamente risoltasi dopo una ostinata permanenza nell’unica sala con condizionatore della sua casa (nonché frequenti puntate in bagno).
Qui nel Guangdong di oggi il problema è ben più insidioso, perché aggravato dal fattore aria condizionata.
La regola base è che il condizionatore va sempre regolato al massimo, provocando sbalzi termici di una trentina di gradi tra esterno e interno, cosa che può diventare pericolosa se per esempio sei giro per negozi.
Una volta uno mi aveva detto che siccome una volta il condizionatore ce l’avevano solo i ricchi, era diventato uno status symbol, e più freddo uguale più status; poi tutti hanno incominciato ad averlo, instaurando un circolo vizioso dalle conseguenze disastrose.
In certi ristoranti di lusso a chi proprio non ce la fa più vengono distribuiti degli scialli per proteggersi dalle correnti d’aria gelata.
Se disgraziatamente si è costretti a dover prendere un taxi, si può essere sicuri che si scenderà dalla macchina con il moccio al naso, a meno che non si vada in giro con il “maglioncino tattico”, articolo indispensabile nei periodi di calura intensa.
I locals sembrano non soffrire della situazione, almeno non ufficialmente perché comunque ogni tanto si sente che qualcuno si è presa la 空调病 (kōngtiáo bìng), la “malattia del condizionatore” (raffreddoris vulgaris).

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