faccia

Questo post è un’ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse ancora bisogno, della vena umoristica e goliardica dei cinesi.
I cinesi distinguono quattro categorie di visi, in base alla forma.

  • Complimenti:
    • 瓜子脸 (guāzǐliǎn) “ovale appuntita”; il 瓜子 è il seme di zucca, quello che si mangia guardando la televisione o bevendo il tè con gli amici. Questo è il complimento numero uno: indica una forma perfetta, ed è rivolto esclusivamente alle donne.
    • 鹅蛋脸 (édànliǎn) “ovale”; 鹅蛋 è l’uovo (蛋) dell’oca (鹅). Questo è il complimento numero due: indica un viso di forma aggraziata, si rivolge principalmente a donne ma può essere rivolto anche a uomini (con cautela).
  • Indicanti difetti:
    • 国字脸 (guózìliǎn) “quadrata”; letteralmente “a forma di carattere 国”, che infatti è indiscutibilmente quadrato. Questa espressione non indica necessariamente bruttezza ma va comunque usata con estrema cautela. Ripeto, non è un insulto ma potrebbe essere preso male.
    • 甩饼脸 (shuǎibǐngliǎn) o semplicemente 饼脸 “rotonda e piatta”; lo 甩饼 (shuǎibǐng) è un tipo di focaccia sottile cotta alla piastra e in genere arrotolata con un ripieno, una specie di crêpe. Usage: same as before.

Ad esempio imperituro seguono pregevoli esempi delle varie categorie.

瓜子 瓜子脸
瓜子 (guāzǐ)
瓜子脸 (guāzǐliǎn)
鹅蛋 鹅蛋脸
鹅蛋 (édàn)
鹅蛋脸 (édànliǎn)

国字脸
Carattere 国 (guó)
国字脸 (guózìliǎn)
甩饼脸 甩饼脸
甩饼 (shuǎibǐng)
甩饼脸 (shuǎibǐngliǎn)

ristoranti 2

In un precedente post si discuteva delle tensioni da affrontare quando si va alla steak house in Cina.
Teniamo comunque presente che la steak house rappresenta, diciamo così, la punta di diamante del mondo dei ristoranti in Cina; al di sotto c’è tutto un universo, dove non sempre le cose vanno così lisce.
Cambiamo quindi categoria e andiamo ad approfondire i ristoranti più tradizionali, quelli proprio completamente cinesi.
Ampie finestre, tavoloni con la tovaglia che arriva fino a terra, sedie in alcuni casi ricoperte di velluto: i conterranei di guarnigione nell’Impero capiranno al volo cosa intendo.

ristorante

Questo è il tipo di ristorante che viene più gettonato quando capita di scorrazzare in lungo ed in largo a visitare fornitori o clienti per trattative, consulti, reclami, lamentele o altri ameni passatempi.
Caratteristica principale di questo tipo di locali sono le gabbie e gli acquari piazzati in bella vista vicino all’ingresso dove sono tenuti in esposizione, vivi e vegeti, animali di ogni forma e colore.
Questo non a fini decorativi ma per assicurare al cliente la freschezza delle carni servite; gli avventori hanno inoltre il vantaggio di poter scegliere personalmente il pollo o pesce o tapiro o qualsiasi altro rappresentante del regno animale che si voglia consumare.
Regola fondamentale: se si è in compagnia di cinesi, chiedere a loro di ordinare e non cedere a nessun compromesso, per nessun motivo.
In questo modo loro saranno contenti, e al manipolo di caucasici in visita sarà grantita l’avventura da raccontare ai colleghi di ritorno al Bel Paese.
“Ho mangiato l’oloturia! Ho mangiato il granchio crudo!” sono frasi che fanno sempre effetto.
Al massimo si correrà il rischio di cadere in balìa dell’ospite, e quindi finire in qualche karaoke, oppure sotto al tavolo in preda ai fumi dell’alcool. Niente di grave.
Può invece capitare che il gruppo sia formato esclusivamente da impavidi esploratori bianchi, e allora i parametri cambiano: entra in gioco l’effetto menù.
Quando va molto bene, su detto menù ci sono le fotografie dei piatti.
In questo caso è meglio dire agli altri commensali che è lecito esprimersi per “point and grunt“, minimizzando l’interazione verbale con il personale e la conseguente propagazione dell’errore.
Il protocollo prevede la conferma all’ordine: anche vedendo l’omino bianco che annaspa indicando una fotografia di un piatto con una mano e facendo segno “UNO” con un dito, la cameriera comunque chiederà: “宫保鸡丁一份,是吗?” (gōngbǎo jīdīng yīfěn, shìma?) “Pollo alla Gong Bao per uno, è così?”.
Lo fanno sempre e comunque, anche tra cinesi; la strategia migliore è sorridere e annuire continuamente, tanto al massimo può capitare che portino un piatto al posto di un altro, ma non si corre il rischio di rimanere a stomaco vuoto.
Quando si è “on the road”, però, bisogna anche considerare com’è la compagnia.
Certo se si è da soli o con qualche altro “China old hand”, non ci sono problemi; basta uno sguardo complice per intendersi, ed iniziare lo scambio di aneddoti.
Molte volte invece capita di essere l’unico che parla cinese e quindi logicamente incaricato di gestire le ordinazioni.
La parte più difficile è far capire ai commensali che i nomi scritti sul menù non sono sempre immediatamente collegabili con le qualità della pietanza.
In fondo non vedo come la cosa possa sembrare strana per qualcuno che a casa propria deve destreggiarsi tra cassoela, millefoglie, caciucco, tiramisù. Sono forse questi nomi collegati in qualche modo agli ingredienti adoperati nella preparazione?
Allo stesso modo, sul menù del ristorante in Cina ci può essere scritto 炸两 (zháliǎng) “due esplosi”, 蚂蚁上树 (mǎyǐshàngshù) “formiche che salgono sopra ad un albero”, 酿三宝 “tre tesori ripieni”, 铁狮子头 (tiě shīzitóu) “teste di leone alla piastra”.
In questi casi l’unica via di uscita è chiedere al personale come sono preparati i piatti, al che il cameriere regolarmente cade dalle nuvole e deve correre in cucina a chiedere lumi; questo provocherà delle altre domande, quindi una nuova sortita nelle cucine, e così via. Anche questo è normale, succede sempre anche tra cinesi.
Il problema vero è far fronte alla prorompente simpatia italica dell’espertone di turno che è andato una volta in vita sua al ristorante cinese in Italia e quindi pensa di possedere una vasta cultura sull’argomento.
Forte della sua vasta esperienza si lancia subito all’attacco e pretende per esempio pollo al limone, o riso alla cantonese, o gelato fritto, oppure qualche altro piatto inventato fuori dalla Cina.
Scattano le spiegazioni, e cioè che il limone in Cina è considerato un frutto esotico e non si usa per insaporire il pollo; che il riso alla cantonese è stato inventato in America e in Cina non c’è, o almeno esiste una variante che si chiama 扬州炒饭 (Yángzhōu chǎofàn), ma non è la stessa cosa, e così via.
Comunque anche questo fa colore, ed è divertente (almeno per le prime venticinque volte).

ristoranti

Per chi abita lontano dal Paese dei Cachi, dalle sue meraviglie e dalle sue nefandezze, è sempre un piacere ricevere ospiti da casa.
Che si tratti di parenti, amici, colleghi in trasferta, clienti oppure megadirettori galattici, ogni occasione è buona per stare un po’ insieme e fare quattro chiacchere.
E in queste situazioni prima o poi si finisce sempre con le gambe sotto al tavolo, cosa sempre gradita, ma che può anche celare qualche insidia (se no non ci facevo un post).
Non me ne vogliano i compatrioti “urbanites” di Shanghai o altre città di primo livello, dove ci sono delle pizzerie che sembra di essere proprio in Italia “tale e quale”, anzi a volte la pizza è decisamente superiore alla media italiana! (purtroppo anche i prezzi, ma si sa… una volta ogni tanto…)
Nella Cina “normale”, la quantità di ristoranti occidentali decresce in proporzione del cubo della distanza da quelle che io chiamo “theme park cities”: Pechino, Shanghai e Shenzhen, e lasciamo perdere Hong Kong perché con La Cina c’entra proprio poco.
Nel resto dell’impero la location è determinante per il tipo di esperienza che si riesce ad ottenere.
Certo, in qualcuna delle altre grandi città ci sono comunque ristoranti occidentali di tutto rispetto, comprese anche steak house di buon livello.
Supponiamo anzi di andare proprio alla steak house, animati da belle speranze e buoni propositi, e soffusi da un generale senso di euforia dato dalla consapevolezza di stare vivendo un’esperienza un po’ diversa dal solito riso bianco, verdure bollite e zampe di pollo.
Ambiente carino, luci soffuse, arredamento in ordine, nessuno che sputa per terra; uno magari comincia a rilassarsi ed abbassare la guardia.

STEAK HOUSE

Ecco che incominciano le prime avvisaglie di tempesta: qui in Cina quando uno ordina una bistecca, per prima cosa si sente rivolgere la seguente domanda: “几成熟 (jīchéngshú)?”
Si deve anche tenere presente che di solito le cameriere anche nei migliori ristoranti parlano a velocità supersonica, solitamente con la bocca chiusa e guardando da un’altra parte, mentre gli altri avventori berciano a pieni polmoni e probabilmente anche con il sottofondo di una soap opera alla TV.
Non ci si deve stupire quindi se la prima volta che mi sono sentito rivolgere questa domanda sono rimasto un po’ perplesso, e mi sono apparse delle impercettibili goccioline di sudore.
Alla mia richiesta di spiegazioni la cameriera ha fatto una faccia da sospensione delle funzioni cognitive e non ha spiccicato parola per qualche secondo.
Tutto regolare: il popolo dei camerieri cinesi rappresenta egregiamente l’attitudine degli abitanti del Celeste impero nei confronti del lavoro dipendente in generale. Mi rendo conto che ad un occidentale impreparato il concetto può sembrare alieno, ma il cameriere ragiona per compiti ben definiti e limitati, ripetendo a macchinetta una serie di azioni senza pensare e con il minor impiego di forze possibile.
Spiegare a qualcuno il significato di certe frasi fatte non rientra nei loro compiti, e lo sforzo di accendere il cervello che era stato spento come sempre a inizio turno è seplicemente inconcepibile.
Fortunatamente quel giorno un altro collega cinese lì presente, vedendo che incominciavo a cambiare colore, pensò bene di darmi l’imbeccata spiegandomi che la cameriera aveva chiesto quanto volevo fosse cotta la mia bistecca.
Probabilmente impietosito dall’inarcarsi delle mie sopracciglia mentre annaspavo cercando di tradurre termini come “ben cotta” o “al sangue”, mi diede anche indicazioni sulla risposta: in questi casi si deve comunicare un numero da zero (cruda) a dieci (carbonizzata).
Risolto il primo empasse, seguì quindi la seconda insidiosa domanda: “要什么酱 (yào shénme jiàng)?”
Bisogna a questo punto capire che la bistecca nel Far East è considerata un piatto insipido, e per dargli sapore è fondamentale corpargerla di salsa; le più diffuse sono 蘑菇酱 (mógu jiàng) “funghi”, 黑椒酱 (hēijiāo jiàng) “pepe nero” e 烤肉调味酱 (kǎoròu tiáowèi jiàng) “barbecue”.
Mai fare l’errore di dire che si vuole la salsa separata dalla bistecca: questo tipo di informazione viene regolarmente inghiottito dal buco nero che ruota sornione sospeso a metà tra i tavoli della sala e le cucine, e quindi la salsa apparirà regolarmente sopra alla bistecca (a meno di andare di persona nelle cucine a seguire la preparazione).
C’è tuttavia una soluzione, una pepita d’oro, una “silver bullet” per ovviare a questo problema: basta dire che si vuole 原味 (yuánwèi) “sapore originale”; è un termine che fa parte del vocabolario di 60-70 parole a disposizione della cameriere durante il turno di lavoro, per cui ha un’efficacia concreta.
Il terzo scoglio della barriera corallina posta a difesa dell’agognata bistecca è rappresentato dal contorno.
Tenendo bene a mente che non ci si trova in America, si potrà scegliere tra spaghetti o riso.
Se si vogliono le patatine fritte, bisognerà ordinarle a parte dicendo “配薯条 (pèi shǔtiáo)”; bisogna anche specificare 番茄酱 (fānqiéjiàng) “ketchup”, mentre una grossa delusione aspetta invece chi gradisce la mostarda senape (in inglese mustard).
Non esiste infatti un termine che identifichi univocamente questo prodotto; si può provare con 黄芥末 (huáng jièmo), un termine che più o meno si avvicina, ma si rischia di vedersi recapitare del wasabi o altre cose che non c’entrano niente.
I più avventurosi possono provare a cercare di spiegare che si tratta del ricavato della spremitura dei 芥子 (jièzǐ) “semi di senape” più altri condimenti, praticamente un 芥末 di colore giallo, ma si rischia di sconfinare nel campo minato delle interpretazioni personali della cameriera, quindi: attenzione.
E ora… Buon appetito!
Ma dico subito che comunque la steak house, a confronto di certe altre esperienze di cui parlerò più diffussamente in un prossimo post, è una passeggiata di salute.

tacchini

Oggi è il primo di Gennaio, e per una volta nella vita vorrei iniziare il nuovo anno con dei buoni propositi.
Anzi, un solo proposito: cercare di non farmi venire il sangue acido a causa di certi comportamenti ai quali purtroppo assisto quotidianamente.
Per esempio quando sono in coda e qualche abitante della Terra di Mezzo mi passa davanti dandomi uno spintone senza nemmeno guardarmi.
Allo stesso modo, cercherò, di non saltare in aria come una mina antiuomo nelle quotidiane situazioni nelle quali per salvare la faccia si perdono intere giornate. (Proprio ieri in banca ho dovuto assistere a una cinquantina di telefonate a vari capi e capetti per chiedere autorizzazione a fare una cosa che poi è risultato tutti sapevano sin dall’inizio che non si poteva fare)
Oppure cercare di non rabbuiarmi quando in macchina qualcuno mi taglia la strada rischiando di venirmi addosso, cosa che purtroppo capita tutti i giorni almeno un paio di volte al minuto risultando in una rabbuiatura perenne.
Oppure cercare di non sbuffare quando un collega viene a chiedere a me di parlare con il suo vicino di scrivania perché ritiene che lui non ci possa parlare avendo lui altre responsabilità e non avendo l’autorità necessaria, risultando in una continua perdita di tempo trascorso a fare il portavoce di infinite lagne.
Ormai si sarà già capito il senso generale del post, e a questo punto potrà risultare significativa la storia del pollo e del tacchino.
Tutti sanno dei galli da combattimento, e di come sia diffusa in certi paesi la pratica di aizzarli l’uno contro l’altro per farli combattere fino all’ultimo sangue.
Bisogna sapere che anche i più mansueti tacchini, alla vista di un potenziale rivale in amore, sentono ribollire il sangue; e anche loro ricorrono alla violenza per risolvere la questione.
Ai panciuti volatili però l’evoluzione ha fornito un sistema per evitare di incorrere in esagerati sprgimenti di sangue.
Nella fattispecie, quando il tacchino più debole sente che la disfatta è prossima, poggia la testa a terra ed offre il collo indifeso all’avversario.
A questo punto il vincitore capisce di avere ottenuto la meglio e non si accanisce ulteriormente, lasciando l’avversario con l’onta della sconfitta e la possibilità di riprendersi, e magari cercare in futuro un’occasione più propizia.
Se però si mettono assieme un gallo e un tacchino, cosa succede?
I due animali sono abbastanza simili per potersi scambiare i segnali riguardanti l’inizio del combattimento, per cui si azzufferanno a prima vista.
Il tacchino pur essendo più grosso del gallo è anche più pesante e meno agile, per cui generalmente ha la peggio.
Le affinità che hanno scatenato l’inizio del combattimento però arrivano solo fino ad un certo punto; il tacchino infatti seguendo il suo proprio codice di comportamento offrirà il collo al gallo.
Purtroppo l’istinto del gallo non prevede questa possibilità e anzi vista la possibilità di colpire una parte vulnerabile, continuerà ad infierire sullo sconfitto.
Il povero tacchino sentendosi sempre più inferiore si appiattirà sempre di più per terra, ed il gallo finirà per ammazzarlo in maniera molto truculenta.
Ecco in sintesi quello che succede quando un omino bianco si tuffa nella folla urbana delle città cinesi: li sistema di valori e consuetudini che lo ha assistito per tutta la vita viene a confrontarsi con un universo differente.
Molte delle cose che dava per scontate non avranno più senso, e molte delle normali abitudini che incontrerà sul suo cammino gli sembreranno assurde.
Inutile accanirsi nel comportarsi come si è stati cresciuti, se non si vuole fare la fine del tacchino; meglio rassegnarsi e cercare di adattarsi alla situazione.
Per cui se qualche conterraneo disperso in Cina avrà la ventura di vedermi passare accanto, non si stupisca se mi sentirà mormorare senza posa una specie di mantra: “Polli e tacchini, polli e tacchini”.
Anzi lo consiglio a chi si trovi nella mia stessa situazione; a me giova molto.

31: Bellezza

Questo stratagemma è il primo della serie “Sconfitta”.
Quelli di questo gruppo sono caratterizzati dal consistere solo di tre caratteri e non di quattro come gli altri.

美人计 (měirénjì)

stratagem 31
Stratagemma 31: 美人计


Dal vocabolario: “sex trap”; “sexual entrapment”
I caratteri:

  • 美 (měi) “bello, bellezza”
  • 人 (rén) “persona”
  • 计 (jì) “trucco”

Letteralmente sarebbe “Trucco della bella donna”, anche se per dire “bella ragazza” solitamente si dice 美女 (měinǚ).
Esiste però un modo di dire in italiano che rende lo stesso concetto e cioè: “Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere.”
Lo stratagemma ruota intorno al problema della dirittura morale.
Specialmente per gli stranieri in Cina, mantenere una condotta morale ineccepibile e non farsi tentare da facili divertimenti sono cose di fondamentale importanza; questo per una serie di ragioni che andiamo ad esporre.
Innanzitutto, sono purtroppo noti a tutti innumerevoli esempi delle tragedie che possono derivare dall’indulgere nei vizi.
A parte le conseguenze dirette, bisogna anche considerare che chi vuole approfittare di certe situazioni è sempre in agguato, per esempio per ricattare lo sfortunato che si va a cacciare in qualche guaio, o per partecipare alle bisbocce, o perché pensa che in quanto amico del gaudente potrà trarre vantaggio dalla situazione.
Certi discorsi valgono dovunque e in qualsiasi tempo, ma lo straniero in Cina deve stare particolarmente all’erta.
Un pacchetto di sigarette può costare quasi niente, per birra e alcolici è lo stesso discorso, in Cina e in tutta l’Asia c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Questo per Bacco e Tabacco; per il resto, sono perfettamente cosciente che l’argomento è molto controverso, ma alla fine questo è solo un blog e io racconto semplicemente quello che vedo.
Premetto che siamo lontani dai go-go bar di Bangkok, ma in Cina ogni hotel che si rispetti ha almeno un piano dedicato ai massaggi “speciali”, e gli alberghi troppo scarsi per permettersi un piano intero hanno comunque delle professioniste che chiamano in camera.
E questo per quanto riguarda il “mestiere”; per le persone normali, checché ne dicano i benpensanti, in Asia in generale l’uomo straniero è comunque molto ben accetto, direi anzi molto ricercato.
I costumi cambiano, e questo si riflette in tutti gli aspetti della società.
I più vecchierelli si ricorderanno che una decina d’anni fa in Cina scoppiò uno scandalo su una scrittrice d’avanguardia, tale 卫慧 (Wèi Huì) che scrisse un romanzetto dai contenuti molto spinti: 上海宝贝 (Shànghǎi bǎobèi) “Shanghai baby“.
Il romanzo ruota attorno alle avventure sentimentali della protagonista raccontate in prima persona dall’autrice, e la scena più famosa era quella che raccontava di un'”esperienza” con un signore tedesco incontrato in un bar.
Apriti cielo! I censori saltarono sulle sedie, i loro cappelli presero il volo, e si dice che qualcuno fu anche preso da convulsioni. Il libro fu proibito e vennero anche bruciate delle copie in pubblico.
Siccome siamo in Cina, altre autrici pensarono di condividere un po’ del successo dell’originale, generando una serie di emuli tra cui il più famoso è stato 北京娃娃 (Běijīng wáwa) “Beijing Doll” di 春树 (Chūn Shù), pure prontamente censurato dalle sempre più scandalizzate autorità cinesi.
Al giorno d’oggi invece i suddetti testi si possono scaricare da internet, e per strada i negozi di 成人用品 (chéngrén yòngpǐn) “sex shop” sono ormai una vista piuttosto comune.
Non siamo in America, non ci sono stati gli anni ’60 né il femminismo; direi che il modello è piuttosto il Giappone, e mi spingerei anche a dire che in Cina l’evoluzione del costume rispetto al Giappone è in ritardo di 20 anni, ma il modello è quello: il fidanzato straniero fa trendy.
Sempre a quanto vedo in giro, non c’è straniero in Cina che non abbia storie piccanti da riferire, e premetto subito che è inutile chiedere a me, io sono felicemente sposato e non faccio testo.
Piuttosto, insisto con il dire che specialmente chi deve preoccuparsi di mantenere una parvenza di leadership su dei collaboratori deve anche pensare a incarnare una sorta di modello di virtù.
Almeno nel pubblico. Ricordiamoci sempre del concetto di 面子 (miànzi): nel privato si può anche essere un serial killer, ma in ufficio bisogna arrivare prima e andare via dopo, dare l’esempio, pensare al benessere dei dipendenti quando possibile.
Purtroppo sono noti casi di stranieri normalmente irreprensibili che, in visita per lavoro in Cina, si sono lasciati andare a sconcezze irripetibili causando anche dei danni considerevoli a famiglia e conoscenti.
Ultimo consiglio: come diceva un mio stimato ex collega, “La legna si fa sempre nel bosco degli altri”: mai scegliersi un compagno/a di bisbocce nella stessa azienda. Il meno che può capitare è che questa persona si sentirà superiore agli altri e cercherà di approfittarsi della situazione.

alberghi

La classificazione del livello degli alberghi in una scala contraddistinta da stelle avviene tramite delle regole definite a livello nazionale.
Per esempio queste sono le regole in vigore in Italia, in base al “sistema a stelle”.

  • 1 stella: Ricevimento 12 ore su 24, pulizia delle camere una volta al giorno, dimensioni minime della camera doppia 14 metri quadri.
  • 2 stelle: Un punto di ristoro e l’ascensore. .
  • 3 stelle: Conoscenza di una lingua straniera da parte della reception (aperta almeno per 16 ore), 12 ore di servizio bar e tutte le camere dotate di bagno privato. .
  • 4 stelle: Due lingue straniere, bar e reception h 16/24, trasporto bagagli, camere doppie di almeno 15 metri quadrati e bagno di 4. .
  • 5 stelle: Reception h 24, portiere di notte, bar h 16/24, tre lingue straniere parlate, parcheggio h 24 e camere di 16 metri quadrati.

In Cina esistono delle regole ufficiali, ma io mi attengo al mio personale sistema di classificazione:

  • Si parte dal meno quattro stelle: C’è il letto, visibilmente utilizzato da più persone prima di te. Capelli sulle lenzuola, polvere e macchie di dubbia origine dappertutto. Bagno esterno oppure interno ma inutilizzabile. Appena entri nella stanza vieni assalito da un fetore di muffa.
  • Meno tre stelle: C’è un ventilatore, magari anche la zanzariera alle finestre. Bagno a distanza ragionevole.
  • Meno due stelle: Non si sente nessuna puzza strana quando si entra. Puoi toccare le tende alle finestre senza poi doverti lavare immediatamente le mani.
  • Meno una stella: La serratura della porta funziona regolarmente. Il bollitore dell’acqua per farsi il tè è utilizzabile, dentro non c’è ruggine né altri corpi estranei.
  • Zero stelle: Non si vedono scarafaggi né tracce recenti di passaggio di topi. Le pareti hanno un colore uniforme, niente muffa o macchie nere di umidità.
  • Una stella: Compaiono televisione e condizionatore.
  • Due stelle: La televisione funziona. Bagno in camera. Bottigliette di acqua sul comodino. Non vieni disturbato ogni mezz’ora da ragazze che ti offrono “massaggi”.
  • Tre stelle: Il condizionatore non ti tiene sveglio la notte con un rombo da cacciabombardiere. Se chiedi qualcosa al servizio in camera, te lo portano.
  • Quattro stelle: Il personale dell’albergo ha una vaga idea del motivo della propria presenza in albergo. Qualcuno da’ addirittura l’impressione di avere lavorato lì da più di un giorno.
  • Cinque stelle: Qualcuno spiccica qualche parola di inglese, tipo HE-LO, GU-DE-MO-NIN, BAI-BAI. Due o tre canali internazionali alla televisione. Bustine di Nescafè in camera.
  • Sei stelle: Lo scarico della doccia funziona regolarmente. L’inglese della reception permette di fare check-in e check-out senza dover diventare paonazzi e urlare senza contegno.
  • Sette stelle: Colazione occidentale con cappuccio e brioche. Inglese fluente.
  • Otto stelle: Se fai la doccia senza le ciabatte che ti sei portato da casa, non ti prendi una micosi.

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carrelli

Avviso per tutti coloro che passano per l’aeroporto di Malpensa (MXP).
Probabilmente lo saprete già, fino a qualche tempo fa i carrelli erano organizzati come quelli del supermercato: per prenderne uno ci voleva una moneta, poi quando lo si rimetteva a posto, si recuperava la moneta.
Questo nonostante il fatto che in tutti gli aeroporti del mondo i carrelli sono liberamente utilizzabili senza restrizione alcuna, dalle nazioni più povere ai paesi più ricchi.
Ma si sa, a noi italiani piace farci ridere dietro.
Probabilmente le finanze dell’aeroporto sono così disastrate da avere richiesto una misura ancora più discutibile.
La brutta notizia è questa: hanno installato delle macchinette che si mangiano l’euro e poi non lo ridanno più indietro.

macchinetta mangiasoldi
Macchina mangiasoldi

Posso capire che la SEA non navighi in buone acque; tagli, aumenti, posso capire tutto. Ma insomma… Questo mi sembra proprio troppo.
O viaggiatore che arrivi arriva da chissà dove, prendi nota.
Quando arrivi in Italia devi già disporre di una moneta nella valuta locale.
Ti è mai capitato di arrivare a Doha, magari stravolto da ore di volo e fuso orario, e prima ancora di avere recuperato i tuoi bagagli doverti procurare una moneta da un Riyal? E poi dover seguire delle istruzioni scritte in arabo su di un foglio di carta appiccicato con il nastro adesivo?
O di andare a Narita e doverti procurare una moneta da 100 yen (istruzioni in giapponese)?
No, vero? Ebbene, benvenuto in Italia!
Devi procurarti l’euro e interpretare delle istruzioni in italiano.
Come se non bastasse, Il funzionamento delle diaboliche macchinette non è affatto intuitivo.
Questo provoca ammassamenti di persone che si guardano attorno con aria sperduta, troppo gentili per esprimere ad alta voce i loro sentimenti.
Viaggiatore, la vera beffa è all’uscita, dove troverai un’altra macchinetta simile alla precedente con un cartello che proclama nella lingua di Dante: “Non è previsto alcun rimborso per l’utilizzo del carrello”.
SÌ, o viaggiatore, a questo punto potrai dare sfogo al torrente di rabbia che proromperà dalla tua bocca, ma ti prego di non coinvolgere la tua fede e le tue divinità; piuttosto fai come tutti e lascia il carrello in mezzo alla strada, così la SEA dovrà pagare qualcuno per rimetterli a posto.
Ancora una volta non ci siamo fatti scappare l’occasione per riconfermarci come gli zimbelli del mondo intero.