carrelli

Avviso per tutti coloro che passano per l’aeroporto di Malpensa (MXP).
Probabilmente lo saprete già, fino a qualche tempo fa i carrelli erano organizzati come quelli del supermercato: per prenderne uno ci voleva una moneta, poi quando lo si rimetteva a posto, si recuperava la moneta.
Questo nonostante il fatto che in tutti gli aeroporti del mondo i carrelli sono liberamente utilizzabili senza restrizione alcuna, dalle nazioni più povere ai paesi più ricchi.
Ma si sa, a noi italiani piace farci ridere dietro.
Probabilmente le finanze dell’aeroporto sono così disastrate da avere richiesto una misura ancora più discutibile.
La brutta notizia è questa: hanno installato delle macchinette che si mangiano l’euro e poi non lo ridanno più indietro.

macchinetta mangiasoldi
Macchina mangiasoldi

Posso capire che la SEA non navighi in buone acque; tagli, aumenti, posso capire tutto. Ma insomma… Questo mi sembra proprio troppo.
O viaggiatore che arrivi arriva da chissà dove, prendi nota.
Quando arrivi in Italia devi già disporre di una moneta nella valuta locale.
Ti è mai capitato di arrivare a Doha, magari stravolto da ore di volo e fuso orario, e prima ancora di avere recuperato i tuoi bagagli doverti procurare una moneta da un Riyal? E poi dover seguire delle istruzioni scritte in arabo su di un foglio di carta appiccicato con il nastro adesivo?
O di andare a Narita e doverti procurare una moneta da 100 yen (istruzioni in giapponese)?
No, vero? Ebbene, benvenuto in Italia!
Devi procurarti l’euro e interpretare delle istruzioni in italiano.
Come se non bastasse, Il funzionamento delle diaboliche macchinette non è affatto intuitivo.
Questo provoca ammassamenti di persone che si guardano attorno con aria sperduta, troppo gentili per esprimere ad alta voce i loro sentimenti.
Viaggiatore, la vera beffa è all’uscita, dove troverai un’altra macchinetta simile alla precedente con un cartello che proclama nella lingua di Dante: “Non è previsto alcun rimborso per l’utilizzo del carrello”.
SÌ, o viaggiatore, a questo punto potrai dare sfogo al torrente di rabbia che proromperà dalla tua bocca, ma ti prego di non coinvolgere la tua fede e le tue divinità; piuttosto fai come tutti e lascia il carrello in mezzo alla strada, così la SEA dovrà pagare qualcuno per rimetterli a posto.
Ancora una volta non ci siamo fatti scappare l’occasione per riconfermarci come gli zimbelli del mondo intero.

Nomination

Mossi da non si sa quale caritatevole spirito, i simpatici signori di lexiophiles mi hanno avvisato che il blog è stato nominato per partecipare ad un concorso: “Vote the best IX11 blog”.
Mi hanno mandato una mail dicendo che posso mettere questo pulsante che rimanda al form per il voto:


 Vote the best IX11 blog

Che dire… votate, votate!
Oppure potete cliccare solo per andare a vedere quali sono gli altri 220 blog elencati, sembrano tutti molto interessanti.
grazie a tutti

troppo

Ti accorgi che sei rimasto troppo tempo in Cina quando…

  1. In giro in macchina sfiori la morte per un soffio quando un camion stracarico a momenti ti schiaccia contro un pullman, e la cosa non ti fa né caldo né freddo.
  2. Al mercato peschi il tuo bel pesce vivo dalla vasca, mercanteggi un’ora per risparamiare 2 RMB e te ne torni a casa bello tranquillo senza nemmeno scuotere la testa.
  3. Al ristorante fai la tua ordinazione, dopo mezz’oretta la cameriera torna e dice che la metà delle cose che hai ordinato non ci sono, quindi ne ordini delle altre, senza battere ciglio.
  4. Il Cheddar arancione ti sembra divino.
  5. Fai segno con la mano ai taxi che passano anche se hanno la luce spenta e vedi che c’è dentro gente.
  6. Vedi uno straniero per strada e lo fissi a lungo con espressione beota.
  7. Improvvisamente l’idea di fare colazione con la sbobbina di riso stracotto non sembra più così malvagia.
  8. La melma verdastra dei laghetti cittadini ti sembra rilassante.
  9. Saluti i tuoi colleghi italiani chiedendogli se hanno mangiato.
  10. Allacciare la cintura di sicurezza in macchina sembra un’inutile perdita di tempo.
  11. I programmi della televisione cinese ti sembrano quasi interessanti.
  12. In ascensore premi con ansia e più volte il tasto “chiudi porta”.
  13. Tieni sulla scrivania una confezione di vetro vuota del Nescafè dove tieni a macerare delle foglie di the per tutto il giorno.
  14. Dopo cena usi lo stuzzicadenti in pubblico con grande soddisfazione.
  15. Sali sull’ascensore senza aspettare che gli altri escano.

23: lontano

Imparare a memoria tutti e 36 gli stratagemmi è un arduo compito, ma mette a disposizione un’arma terribile.
Recitarli tutti a memoria uno dopo l’altro provoca sempre grande sbigottimento negli interlocutori, ma attenzione! Va fatto con grande cautela, solo nelle grandi occasioni, e solamente dopo avere tirato in ballo l’argomento con savoir faire, altrimenti si rischia di fare la figura del wise guy o per dirla con un lombardismo, lo “sborone” o “il bauscia”.
Ma se si vuole impressionare durevolmente il futuro suocero, oppure qualche papavero governativo, questa è una “silver bullet” di sicuro effetto.
Procediamo quindi con il prossimo:

stratagem 13
Stratagemma 23: 远交近攻


远交近攻 (yuǎnjiāojìngōng) “Fare amicizia con chi sta lontano e combattere i vicini”

In inglese: “Befriend a distant state while attacking a neighbour”.
A prima vista questo stratagemma può sembrare un controsenso.
Sembrerebbe più logico fare amicizia con i vicini, e non curarsi di chi ci sta lontano; è chiaro che bisogna tenersi buoni i familiari, amici e colleghi, su questo non ci piove.
Bisogna però considerare una prospettiva più ampia, e cioè distaccarsi un attimo dalla quotidianità e pensare che questo stratagemma è nato nel periodo degli stati combattenti, ragionando in termini di feudi e città-stato.
Ai nostri tempi, possiamo comodamente fare paralleli con aziende, istituti scolastici, organizzazioni varie.
In questo contesto per esempio, le aziende dello stesso campo sono concorrenti che aspettano solo il momento giusto per farsi fuori a vicenda.
Invece aziende in campi diversi apparentemente scollegati possono dare origine a collaborazioni originali ed innovative, come per esempio negli anni ’90 quando la feeding frenzy della new economy generò un proliferare di nuove idee, alcune delle quali fin troppo folli, ma altre destinate al successo.
In ufficio: i vicini di scrivania competono per i favori del capoufficio, i bonus, il computer migliore… mentre uno che sta in contabilità può fare amicizia con un network administrator e farsi abilitare il computer per navigare a sbafo dalla rete aziendale anche se non potrebbe.
Pensiamo poi ai gemellaggi di una città con un’altra all’altro capo del mondo, cose che si fanno per creare nuove opportunità.
Alla fine anche i fenomeni di delocalizzazione o outsourcing in paesi con differenti condizioni economiche possono essere ricondotti a questo tipo di strategia.
Un altro punto di vista è l’utilizzo dello stesso principio per prevenire altrui alleanze potenzialmente pericolose.
Esempi? *cough**cough*N.A.T.O.*cough*…

13: serpente

Ci sono molte situazioni dove i 36 stratagemmi tornano utili.
Per esempio concludendo un intervento in una riunione: “E quindi ritengo che dovremmo dare dei segnali indiretti al fornitore per fargli capire che queste cose non si fanno, ma senza per questo inimicarcelo. D’altra parte come dite voi, 指桑骂槐, vero? (whink, whink)”
Se si riesce a concludere un intervento in questo modo, si può star sicuri che in sala calerà un silenzio attonito, e nessuno oserà ribattere.
Primo, perché tutti saranno ammutoliti dallo stupore nel constatare che l’omino bianco ha snasazzato nelle pieghe più riposte della loro cultura.
Secondo, perché ribattere ad una conclusione del genere sarebbe come criticare la propria millenaria cultura in pubblico, e prima di fare una cosa del genere in pubblico un cinese ci pensa parecchie volte, non due.
Procediamo quindi con un altro dei miei preferiti:

stratagem 13
Stratagemma 13: 打草惊蛇


打草惊蛇 (dǎcǎojīngshé) “Battere l’erba per spaventare il serpente”

Il dizionario dice “inadvertently alert an enemy/opponent” oppure “punish sb. as a warning to others”.
Detta così sembra la stessa cosa di quello del gelso e la locusta, ma la questione è ben diversa.
Qui si tratta di un avversario che vuole tenere nascosta una situazione a lui favorevole; si fa quindi una sceneggiata cercando di provocare una sua reazione in modo da portare le carte allo scoperto e così annullare il suo vantaggio.
Mettiamola così: a volte sospettiamo che da qualche parte ci possa essere un pericolo latente, e vorremmo scoprire se il sospetto è fondato.
Oppure si tratta di una altrui malefatta ben nascosta, che vorremmo portare alla luce in modo che tutti sappiano.
Nella vita reale, le applicazioni di questo stratagemma sono più comuni di quanto si pensi.
A tutti sarà capitato sapere che un amico è stato mollato dalla ragazza; però non sarebbe sarebbe carino spifferare subito la notizia ai quattro venti.
Al primo ritrovo al bar però pioveranno frecciatine sull’argomento fino a quando il poveretto non potrà fare a meno di riconoscere pubblicamente la propria situazione.
Consideriamo quindi il caso di un adolescente a cui piaccia una ragazza, e sospetti anche che questa a sua volta abbia un debole per lui.
Per accertarsene potrebbe aspettare l’occasione giusta, per esempio una festicciola, e fare il brillante in pubblico con altre amiche, sperando di provocare nella sua bella una reazione dettata dalla gelosia.
Prendiamo ora ad esempio un caso di vita di ufficio.
Diversi colleghi allo stesso livello sono in lizza per una promozione, e il capo probabilmente ha già un nome in mente.
Ma la cosa viene tirata per le lunghe, come fare per accelerare la decisione ufficiale?
Al primo intoppo, si butta benzina sul fuoco e si trasforma il problema in una tragedia, spingendo il capo ad affidare la patata bollente al suo prescelto.
Va detto che il prerequisito fondamentale per attuare questo stratagemma è di conoscere a fondo le condizioni al contorno, altrimenti si rischia di sprecare energie senza ottenere niente, o peggio rimettendoci pure.
Lo stratagemma è citato volentieri anche nella versione al negativo, cioè “non pestiamo l’erba, correremmo il rischio di spaventare il serpente”; in Italia si direbbe “lascia stare il cane che dorme.”

trappola

Per chi si avventura in Cina, ci sono consigli e avvertimenti che possono risparmiare tempo e fatica, e anche evitare pietose figuracce.
La pagina che vorrei presentare oggi fa parte dell’ultima categoria, quella “salva-faccia”.
Mi rivolgo in questo post a chi il cinese lo parla già, e per la precisione alla specifica situazione nella quale ci si trova ad intrattenere conversazioni con persone che si vedono per la prima volta.
lo schema è fisso; dopo i primi convenevoli parte la solita conversazione che ho già praticato migliaia di volte, costituita da una infinita serie di complimenti: “Ma come parli bene il cinese”, “Come sei bravo”, “Sembri proprio un cinese”, “Pochi stranieri parlano il cinese così bene”.
Attenzione, primo consiglio: non cadere immediatamente in brodo di giuggiole perché i cinesi dicono così a tutti, a CHIUNQUE, anche ai sordomuti.
Comunque, dopo avere ripetuto le stesse cose per una dozzina di volte, ci si avvia finalmente verso la conversazione spicciola.
È qui che prima o poi scatta la trappola.
Si può essere matematicamente certi di questo, deve essere qualcosa cablato nel DNA, oppure qualcosa che insegnano loro da piccoli, a scuola:”Mi raccomando bambini, quando vedete uno straniero dovrete fargli la trappola! Hi hi hi, snigger snigger!”.
Ci si può stupire di come i cinesi sotto certi aspetti siano così prevedibili, soprattutto considerato che ritengono di essere furbi come il demonio; ma forse proprio per questo, perché pensano tutti la stessa cosa, alla fine poi in realtà sono tutti uguali, dal primo all’ultimo.
Comunque tornando a noi, solitamente il “domandone” (o “trappolone”) consiste in qualcosa di apparentemente innocuo, tipo: “Ieri ho mangiato il BRISCIUT.”
Segue una pausa pensosa.
Questo è il segnale, l’imbeccata: in questo momento bisogna decidere come reagire, in un duello di strategia, valutando le caratteristiche dell’avversario e tenendo bene a mente gli insegnamenti di Sun Tzu e Miyamoto Musashi.
La trappola in realtà è vecchia come il cucco, probabilmente veniva già usata dail’uomo di pechino quando incontrava un altro ominide proveniente dalla valle vicina alla propria.
Se si è rilassati ed in buoni rapporti, si può candidamente sorridere e chiedere: “Ma cosa sarà mai questo misterioso brisciut?”
Si scopre quindi che si tratta della misteriosa rana caudata che vive solo sulla montagna di origine dell’interlocutore, e quello è un termine che usano solo lì, anzi solo nel suo quartiere, anzi solo nel suo condominio.
Inutile puntualizzare che l’apporto alla conversazione dato dal brisciut è pressoché nullo, anzi decisamente negativo e molesto, e secondo me anche un pochino offensivo.
Insomma cerchiamo di immedesimarci, in un esercizio che pratico da tempo e che ha sempre dato ottimi risultati: è come se incontrassi un cinese che per anni e anni abbia faticosamente studiato l’italiano, ed fosse arrivato al punto di potersi esprimere con correttezza, quindi alla prima occasione gli facessi il test della cadrega come nella famosa scenetta!
Che senso avrebbe? Cosa ci sarebbe da dimostrare?
Vogliamo per forza ribadire a tutti i costi la schiacciante superiorità di seimila anni di storia cinese (autentica o meno), la cultura, le invenzioni, eccetera, &c, &c, che veramente non se ne può proprio più?
Il primo impulso per me, che qui ci devo vivere, e di cose del genere mi capitano tutti i santi giorni, è di balzare in piedi urlando, rovesciare il tavolo, poi usare la sedia per fracassare il cranio all’interlocutore.
Ma non viviamo mica in un telefilm americano, e nemmeno nel Bel Paese!
Qui bisogna controbattere ma con un sorriso, e poi magari andare assieme al KTV.
Una ottima strategia è il fuoco di sbaramento con una fila di domande: “Ma com’è fatta questa rana? E quanto vive? E dove si trova? E come si cucina? Che verso fa? Quante ce ne sono? Si trova tutto l’anno?” E così via.
C’è una buona probabilità che il molesto interlocutore non sappia praticamente nulla dell’argomento, quindi si senta colto in fallo, e sperabilmente prima di proporre un’altra trappola ci penserà due volte.
Se invece il termine assomiglia a qualcosa di vagamente conosciuto, per esempio un piatto tipico lombardo, si può anche fare finta di aver capito e proseguire con la conversazione: “Ah sì, buono, mia nonna lo faceva sempre.”
Sono impagabili le soddisfazioni che si ottengono con questo tipo di risposte, semplicemente osservando le espressioni di sgomento sulla faccia dell’avversario.
Pare di potergli leggere nella mente mentre si chiede: “????! Ma non saprà mica davvero cos’è il brisciut? Ma chi è questo? E ora cosa dirò alla prossima riunione del CRPS (comitato ridicolizzazione pubblica stranieri)?”
Le soddisfazioni sono purtroppo di breve durata, perché l’interlocutore incredulo non potrà fare a meno di chiedere: “Ma tu lo sai cos’è il brisciut?”
Caro, carissimo interlocutore… Ma se già sapevi che io non sapevo, allora cosa l’hai tirato in ballo a fare? Perché? PERCHÉ?
In questo caso la via d’uscita è semplice, basta dire: “Certo che lo so, è la carne d’asino trita fatta in pentola, yumm, buono.”
Questa è una via d’uscita onorevole, perché per uno straniero è lecito confondersi su di un termine.
Una volta invece mi sono incaponito a dire “Certo che lo so” e basta, senza fornire altre spiegazioni.
Questo ha provocato una certa empasse, perché l’interlocutore in questione non si azzardava a dire “E allora dillo, cos’è?”: sarebbe stato troppo.
Allora ha continuato a ripetere: “Ma lo sai cos’è?” e io: “Certo, lo so!” e così via per un po’ di volte, fino a quando si è arreso e l’ha detto lui.
Per la cronaca, era un termine indicante uno di quei gradi di parentela che per spiegarlo ci vuole un foglio Excel, e che si usava solo nella sua città, anzi solo nel suo quartiere, etc… etc…

contadini

Vorrei condividere in questo mio umile angolo di rete il risultato di una interessante discussione avuta recentemente con un “fellow expat”.
Si discuteva (guarda un po’) di frutta, in particolare di frutta importata, nella fattispecie di un tipo di uva nera senza semi che arriva dal Cile.
La domanda sorge spontanea: come mai con tutta la frutta che c’è qui, devono importare l’uva? Possibile che nessuno riesca a coltivare uva in Cina, che a tutt’oggi è un paese per l’80% agricolo?
Parentesi: non me ne vogliano gli “urbanities” di Shanghai e Beijing, ma le grandi città cinesi che trainano l’economia sono l’eccezione e non la regola.
Se vogliamo ragionare in termini di statistica, la Cina può essere descritta come paese costituito in prevalenza da montagne, deserti e grandi distese di coltivazioni frammentate in piccolissimi campi, a gestione familiare e coltivati prevalentemente a mano.
Chi coltiva i campi sono i famosi e spesso bistrattati contadini cinesi, quelli che in un anno vedono sì e no qualche migliaio di RMB.
Guardiamo in faccia la realtà: il tipico contadino cinese ripete sempre gli stessi gesti tutti i giorni dell’anno, in un ciclo tramandato da migliaia di generazioni.
I compatrioti di stanza qui in Cina lo sanno bene, basta guidare per una mezz’oretta in una qualsiasi direzione che lasci alle spalle il centro città e ci si ritrova catapultati in un altro mondo.
Certo ormai il contadino medio ha il cellulare, la televisione, la parabola satellitare; attenzione però, “medio” vuol dire che fette estese della popolazione non ha niente di tutto questo, e posso dire di avere toccato con mano la situazione quando ho guidato fuori città per più di mezz’ora.
Qualcuno ha anche qualche trabiccolo che aiuta nei lavori più pesanti, ma le tecniche di coltivazione sono fondamentalmente manuali, direi quasi medievali.
In effetti, i mezzi dell’agricoltura cinese sono così obsoleti che il rendimento della terra è abbastanza basso.
Allora come fanno a dar da mangiare a tutti?
Risposta: la Cina importa grano e soia dall’America! (e riso dal’India)
Ma la cosa più incredibile è che la soia americana è più economica di quella cinese!
Ma come, se il contadino medio cinese guadagna solo qualche migliaio di RMB all’anno!
Certo, ma in America la famosa mietitrebbia la usano eccome, e il contadino medio americano è più un businessman che un agricoltore: la mattina controlla le mail per vedere cosa gli ha scritto il suo broker, poi compra e vende dei futures sul suo prossimo raccolto, controlla le condizioni del tempo da satellite ed infine sale sulla sua mietitrebbia con GPS e sistema di guida computerizzato, e lascia che la macchina faccia tutto da sola mentre lui legge il “Financial Times”.
Sistema efficiente, mezzi efficienti, poche persone molto ben organizzate, tutto questo significa prezzi bassi.
La risposta pare ovvia: l’onnipotente governo cinese potrebbe avviare dei programmi di riforma e modernizzazione dell’agricoltura, problem solved.
Nel mio piccolo però io penso che il governo cinese non abbia alcun interesse a sviluppare particolarmente l’agricoltura, per una semplice ragione. Supponiamo che il villaggio “X” decida di acquistare una mietitrebbia che fa il lavoro di 100 persone.
E le altre 99 cosa fanno? Abbandonano la campagna per andare a fare fortuna in città?
Così da creare altre tensioni sociali, aumentare il numero dei “migrant workers“, far salire la disoccupazione, insomma fare casino?
Niente di tutto questo, anzi più pastoie si riesce ad escogitare per tenere i contadini al loro posto, meglio è.
Quindi, avanti così, importare uva e prugne, e accontentarsi di pitaya, lychees, waxberry eccetera che poi sono pure buoni.
E i contadini (e i pescatori, minatori, pastori etc…), per ora è importante che se ne stiano buoni, e continuino a fornire la manodopera a basso costo che continua ad essere così importante per la Cina.