Ristoranti 4

Ho lasciato come ultimo argomento di questa mia umile trattazione sui ristoranti cinesi quello che in realtà è l’elemento più importante dell’intero settore, lo scoglio, l’iceberg semisommerso che bisogna conoscere ed imparare ad accettare se non si vuole finire con un travaso di bile o con i capelli strappati.
Mi riferisco alla sopraffina tortura del 没有 (méiyǒu),termine traducibile liberamente con “Non c’è; è finito; non esiste; non è mai esistito; non so di cosa stai parlando; non so cosa ci faccio qui; sembro un essere umano ma invece sono un primate e per giunta lobotomizzato; uh uh uh”.
O tu, omino bianco che entri in un loco di ristorazione sperduto nelle profondità della Terra di Mezzo, e ti siedi al tavolo, e guardi il menù, sì tu, proprio tu, cosa pensi?
Pensi forse che tutte le pietanze elencate e magari anche illustrate a vividi colori siano tutte lì apposta per te, disponibili per sollecitarti a piacimento le papille gustative?
Ma dove credi di essere?
Sappi che l’eroico ristoratore cinese tutti i giorni deve fare i conti con biechi gestori di bancarelle del mercato rionale e negozianti vari, i quali malignamente gli alzano i prezzi a tradimento, lo imbrogliano, lo sbeffeggiano e lo insultano nel corso del sacrosanto esercizio delle sue mansioni.
Sappi anche che la cella frigorifera che in Occidente è dotazione standard di qualsiasi stamberga che abbia un minimo di dignità, in Oriente è considerato un futile ammennicolo di recente introduzione rivolto principalmente agli hotel a 5 stelle, di costo sproprorzionato alla sua scarsa utilità e del quale si può fare benissimo a meno.
Ed è altrettanto inutile e diciamocelo, pure un sacco fastidioso, dover modificare il menù ogni giorno a seconda del vento che tira al mercato, o ancora peggio avvisare le cameriere di quello che c’è o non c’è in cucina in modo che esse possano informare gli avventori!
Per non parlare del fatto che magari la sorte sarà amica e l’avventore di turno, ispirato come un aruspice, azzeccherà solamente i piatti disponibili con magno gaudio di tutti.
Introduco un esempio esemplificativo, visto che questo dovrebbe essere l’ultimo post della serie dei ristoranti.
Prendiamo una bella combriccola magari di una ventina di persone, tra cui bwana bianchi in trasferta, colleghi cinesi e uno o due expat (riconoscibili perché leggermente emaciati), afflitti naturalmente dall’ingrato compito di gestire le ordinazioni.
Una volta sistemati tutti al proprio posto, finite le salve dei sempre arguti e originali motteggi riguardanti le colleghe, le cameriere, tutto il personale femminile e qualsiasi cosa dotata di capelli lunghi che si muova o respiri nel raggio di due km, arriva il momento delle ordinazioni.
Prendiamo il caso semplice di un ristorante con menù fotografico; in questo caso ognuno punta il dito sulla foto, la cameriera scarabocchia dei geroglifici incomprensibili su un pezzetto di carta da formaggio, dopodiché enunzia una tiritera che potrebbe essere una ninna-nanna in tagalog.
L’expat sorride stancamente, annuisce e sentenzia: 啤酒 (píjiǔ) “Birra”.
Tutti ridono.
La cameriera si allontana scuotendo la testa.
Dopo un intervallo di tempo variabile tra i venti minuti e i tre quarti d’ora, la cameriera si avvicina nuovamente al tavolo e mitraglia sei o sette nomi di piatti seguiti dal lapidario 没有 (méiyǒu).
Chiaramente nessuno si ricorda cosa aveva ordinato, quindi tutti devono rivedere il menu, indicare la foto, chiedere se era quello, eccetera eccetera.
Seguono altre ordinazioni.
Come è ovvio, anche alcune delle nuove ordinazioni ricadono nuovamente nel fatidico 没有, quindi la cameriera tornerà a ripetere la stessa scenetta, e così via, sino a tendere asintoticamente verso la completa soddisfazione di tutte le ordinazioni.
A volte quando il colore delle facce degli occidentali incomincia a tendere al violaceo, le cameriere incominciano a temere di portare la ferale ambascia, e allora i cuochi preferiscono ricorrere ad una soluzione tipicamente cinese: uscire a procurarsi il piatto mancante in un altro ristorante.
Chiaramente questo richiede del tempo (ma si tratta di tempo cinese, è differente da quello occidentale), ed ecco spiegato perché capita che in una combriccola di gaudenti ci possa essere un malcapitato che viene servito un’ora dopo di tutti gli altri.
So di distinti signori caucasici la cui pur notevole pazienza è stata logorata fino al punto di da cadere in parossismi di rabbia, stappando le pagine del menu e riducendole a brandelli di fronte all’allibito personale.
Non si sottovaluti l’irresistibile potenza del 没有: esso può spuntare inatteso in ogni situazione, anche a seguito di contratti scritti in pergamena di pelle umana, firmati con il sangue e timbrati con sigilli di giada.
Expat avvisato…

alberghi

La classificazione del livello degli alberghi in una scala contraddistinta da stelle avviene tramite delle regole definite a livello nazionale.
Per esempio queste sono le regole in vigore in Italia, in base al “sistema a stelle”.

  • 1 stella: Ricevimento 12 ore su 24, pulizia delle camere una volta al giorno, dimensioni minime della camera doppia 14 metri quadri.
  • 2 stelle: Un punto di ristoro e l’ascensore. .
  • 3 stelle: Conoscenza di una lingua straniera da parte della reception (aperta almeno per 16 ore), 12 ore di servizio bar e tutte le camere dotate di bagno privato. .
  • 4 stelle: Due lingue straniere, bar e reception h 16/24, trasporto bagagli, camere doppie di almeno 15 metri quadrati e bagno di 4. .
  • 5 stelle: Reception h 24, portiere di notte, bar h 16/24, tre lingue straniere parlate, parcheggio h 24 e camere di 16 metri quadrati.

In Cina esistono delle regole ufficiali, ma io mi attengo al mio personale sistema di classificazione:

  • Si parte dal meno quattro stelle: C’è il letto, visibilmente utilizzato da più persone prima di te. Capelli sulle lenzuola, polvere e macchie di dubbia origine dappertutto. Bagno esterno oppure interno ma inutilizzabile. Appena entri nella stanza vieni assalito da un fetore di muffa.
  • Meno tre stelle: C’è un ventilatore, magari anche la zanzariera alle finestre. Bagno a distanza ragionevole.
  • Meno due stelle: Non si sente nessuna puzza strana quando si entra. Puoi toccare le tende alle finestre senza poi doverti lavare immediatamente le mani.
  • Meno una stella: La serratura della porta funziona regolarmente. Il bollitore dell’acqua per farsi il tè è utilizzabile, dentro non c’è ruggine né altri corpi estranei.
  • Zero stelle: Non si vedono scarafaggi né tracce recenti di passaggio di topi. Le pareti hanno un colore uniforme, niente muffa o macchie nere di umidità.
  • Una stella: Compaiono televisione e condizionatore.
  • Due stelle: La televisione funziona. Bagno in camera. Bottigliette di acqua sul comodino. Non vieni disturbato ogni mezz’ora da ragazze che ti offrono “massaggi”.
  • Tre stelle: Il condizionatore non ti tiene sveglio la notte con un rombo da cacciabombardiere. Se chiedi qualcosa al servizio in camera, te lo portano.
  • Quattro stelle: Il personale dell’albergo ha una vaga idea del motivo della propria presenza in albergo. Qualcuno da’ addirittura l’impressione di avere lavorato lì da più di un giorno.
  • Cinque stelle: Qualcuno spiccica qualche parola di inglese, tipo HE-LO, GU-DE-MO-NIN, BAI-BAI. Due o tre canali internazionali alla televisione. Bustine di Nescafè in camera.
  • Sei stelle: Lo scarico della doccia funziona regolarmente. L’inglese della reception permette di fare check-in e check-out senza dover diventare paonazzi e urlare senza contegno.
  • Sette stelle: Colazione occidentale con cappuccio e brioche. Inglese fluente.
  • Otto stelle: Se fai la doccia senza le ciabatte che ti sei portato da casa, non ti prendi una micosi.

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cassa

Per motivi personali, decido di effettuare una spedizione con la cassa con la quale qualche anno fa avevo spedito dall’Italia i miei effetti personali.
Si tratta di una pregevole cassa di legno fumigato di dimensioni di metri 1x1x1, un metro cubo giusto giusto.
Faccio recapitare il cubozzo nel parcheggio coperto sotto casa e chiamo una nota ditta di trasporti, spiegando per filo e per segno l’orario del ritiro (due del pomeriggio), luogo di destinazione, misure, probabile peso complessivo.
Con animo allegro incomincio quindi a preparare scatoloni vari da mettere nella cassa.
Il mattino del giorno stabilito incomincia la serie delle obbligatorie telefonate di conferma al trasportatore, che poi diventano telefonate di sollecito, per poi assumere toni iracondi quando il ritardo supera le due ore.
Tutto normale, niente di cui preoccuparsi. Succede sempre, ogni volta, sicuro come il sorgere del nuovo sole.
Alla fine suona il campanello, e si presenta un ragazzotto con un classico carrello cinese di quelli fatti in casa, composti da una intelaiatura di metallo saldata alla bell’e meglio, con dei cuscinetti a sfera a mò di ruote.
Si procede alla compilazione dei moduli, complicata dal fatto che il mio nome non è composto da tre caratteri quindi non ci sta nello spazio assegnato, e poi il ragazzo non ha mai visto in vita sua un passaporto, eccetera eccetera.
Superate le difficoltà burocratiche, si procede a sistemare su detto carrello tutte le scatole che avevo preparato e sulle quali avevo ingenuamente apposto scritte tipo “fragile”, “mettere in basso”, “mettere in alto”, “non capovolgere” eccetera.
Accenno a qualche flebile protesta. “Scusa, invece di fare una piramide alta due metri sul carrello, non si potrebbero fare due viaggi?”
“Non c’è problema, ce la facciamo benissimo.”
“Il fatto è che le scatole sotto risultano un po’ schiacciate.”
“Tanto è solo per due minuti, il tempo di scendere in ascensore.”
“Ma ci passiamo poi dal’ascensore? Non è troppo alto?”
“Non c’è problema.”
Una volta terminata la piramide, in effetti la salita sull’ascensore non presenta troppi problemi.
Purtroppo per arrivare al parcheggio sotterraneo dopo l’ascensore c’è una porta leggermente più bassa, dove si verifica la rovinosa caduta di alcune delle scatole più fragili che avevo avuto cura di lasciare in cima al mucchio.
Prendo qualcosa al volo come nei cartoni di Tom e Jerry, e superiamo la porta.
Mi volto verso la cassa per togliere il coperchio, e sento un agghiacciante rumore di scatole cadute.
Purtroppo la griglia sopra al canale di scolo subito dopo la porta si è rivelata un ostacolo fatale per le piccole ruote del carrello.
Procediamo quindi alla raccolta degli oggetti usciti da alcune delle scatole.
Chiedo poi: “Dov’è il camion?”
“Non ci hanno lasciato entrare, dicono che è troppo alto e qui non passa.”
“Ma se mettiamo tutte le scatole nella cassa, poi sarà troppo pesante per metterla sul camion. Come pensi di fare?”
“Mettiamo le scatole vuote per terra; mettiamo la cassa vuota sul carrello; mettiamo le scatole nella cassa; portiamo fuori la cassa piena con il carrello; svuotiamo la cassa vicino al camion; mettiamo la cassa vuota sul camion e quindi la riempiamo di nuovo con le scatole.”
Abbacinato da questo improvvisa rivelazione mistica, rimugino un po’ e convengo che in effetti non c’è altra maniera.
Ci accingiamo quindi ad eseguire il piano tattico.
Purtroppo la rampa per uscire è molto lontana, c’è di mezzo il parcheggio sotterraneo che è stato costruito prendendo come modello il labirinto del minotauro. La rampa di entrata invece è lì vicina, quindi chiedo alla guardia di fermare momentaneamente le macchine all’ingresso per permetterci di uscire da lì.
Risultato: mentre compiamo sforzi erculei per far superare alla cassa piena i cordoli antivelocità su per la rampa, veniamo quasi investiti da un’automobile.
Non penso nemmeno a rimproverare la guardia e ci dirigiamo verso il camion.
Appena arriviamo vicino al camion inizia a piovere, una di quelle piogge torrenziali a goccioni grossi come pugni che capitano solo nel Guangdong e nei film di Fantozzi.
Il ragazzo sentenzia: “Dico all’autista di muovere il camion sotto l’albero, lì non piove.”
La manovra viene eseguita immediatamente, con qualche difficoltà perché i rami più bassi si impigliano sulla sommità del cassone e ci strisciano lamentosamente.
Fortunatamente avevo chiuso perbene la cassa con il suo coperchio, altrimenti mi sarei trovato con un metro cubo di acqua e poco altro.
Una volta aperte le ante del camion, mi aspettava un’amara sorpresa: il camion era già pieno di altre scatole.
Rivolgo al ragazzo un’occhiata da cerbiatto ferito, e lui mi dice: “Non c’è problema, adesso faccio spazio.”
Il relativo riparo delle foglie d’albero non mi evita di prendere una bella razione di acqua piovana, mentre guardo affascinato questo tizio che sposta scatole come nel gioco dei 15 per creare uno spazio di un metro cubo nel vano di carico del camion.
Nonostante avessi pensato che fosse impossibile, la pioggia aumenta di intensità.
Ritengo impossibile svolgere il resto delle operazioni previste dal “master plan” e propongo di spostare la cassa sotto ad un porticato che offre un relativo riparo.
Il porticato presenta un gradino insormontabile dal carrello con sopra la cassa e quindi la essa viene lasciata a macerare sotto l’acqua torrenziale mentre io ed il ragazzo ci guardiamo attorno, e l’autista resta invisibile nel suo abitacolo.
Mi metto a cercare una maniera per permettere al camion di venire in retromarcia fino a sotto al porticato, ma è impossibile: l’intera zona è stata circondata da paletti cementati messi lì apparentemente al preciso scopo di evitare una manovra del genere.
Non resta che aspettare che il temporale finisca.
Dopo qualche decina di minuti non piove più. Il ragazzo nel frattempo era sparito; spingo carrello e cassa vicino al camion.
Tolgo il coperchio e vedo che l’acqua è entrata ugualmente, ma il danno non sembra troppo grave.
Compare l’autista, un signore di mezz’età, assieme al ragazzo; allora ribalto il coperchio per terra e sposto un po’ di scatoloni sopra a detto coperchio, mentre il ragazzo finisce l’opera di creazione di spazio all’interno del cassone e l’autista osserva meditabondo.
Quando la cassa è mezza vuota, i due propongono di sollevarla.
Purtroppo appena iniziato il movimento, l’autista accusa forti dolori di schiena. Devo prestare all’opera le mie forti braccia.
Bene o male mettiamo la cassa sul camion.
Il ragazzo si accinge a rimettere dentro le scatole ma dopo un mio perentorio urlaccio si fa da parte e si limita a passarmele mentre io cerco di trovare una sistemazione ottimale.
Qualcosa da questi cinque anni di Cina l’ho anche imparato, per cui mi ero portato martello e chiodi per chiudere il coperchio della cassa.
Alla fine, bagnato come un pulcino, sporco e sudato come un camallo, il ragazzo mi presenta da firmare l’ultimo foglio: “Plichi spediti: uno”

carrelli

Avviso per tutti coloro che passano per l’aeroporto di Malpensa (MXP).
Probabilmente lo saprete già, fino a qualche tempo fa i carrelli erano organizzati come quelli del supermercato: per prenderne uno ci voleva una moneta, poi quando lo si rimetteva a posto, si recuperava la moneta.
Questo nonostante il fatto che in tutti gli aeroporti del mondo i carrelli sono liberamente utilizzabili senza restrizione alcuna, dalle nazioni più povere ai paesi più ricchi.
Ma si sa, a noi italiani piace farci ridere dietro.
Probabilmente le finanze dell’aeroporto sono così disastrate da avere richiesto una misura ancora più discutibile.
La brutta notizia è questa: hanno installato delle macchinette che si mangiano l’euro e poi non lo ridanno più indietro.

macchinetta mangiasoldi
Macchina mangiasoldi

Posso capire che la SEA non navighi in buone acque; tagli, aumenti, posso capire tutto. Ma insomma… Questo mi sembra proprio troppo.
O viaggiatore che arrivi arriva da chissà dove, prendi nota.
Quando arrivi in Italia devi già disporre di una moneta nella valuta locale.
Ti è mai capitato di arrivare a Doha, magari stravolto da ore di volo e fuso orario, e prima ancora di avere recuperato i tuoi bagagli doverti procurare una moneta da un Riyal? E poi dover seguire delle istruzioni scritte in arabo su di un foglio di carta appiccicato con il nastro adesivo?
O di andare a Narita e doverti procurare una moneta da 100 yen (istruzioni in giapponese)?
No, vero? Ebbene, benvenuto in Italia!
Devi procurarti l’euro e interpretare delle istruzioni in italiano.
Come se non bastasse, Il funzionamento delle diaboliche macchinette non è affatto intuitivo.
Questo provoca ammassamenti di persone che si guardano attorno con aria sperduta, troppo gentili per esprimere ad alta voce i loro sentimenti.
Viaggiatore, la vera beffa è all’uscita, dove troverai un’altra macchinetta simile alla precedente con un cartello che proclama nella lingua di Dante: “Non è previsto alcun rimborso per l’utilizzo del carrello”.
SÌ, o viaggiatore, a questo punto potrai dare sfogo al torrente di rabbia che proromperà dalla tua bocca, ma ti prego di non coinvolgere la tua fede e le tue divinità; piuttosto fai come tutti e lascia il carrello in mezzo alla strada, così la SEA dovrà pagare qualcuno per rimetterli a posto.
Ancora una volta non ci siamo fatti scappare l’occasione per riconfermarci come gli zimbelli del mondo intero.