Ho lasciato come ultimo argomento di questa mia umile trattazione sui ristoranti cinesi quello che in realtà è l’elemento più importante dell’intero settore, lo scoglio, l’iceberg semisommerso che bisogna conoscere ed imparare ad accettare se non si vuole finire con un travaso di bile o con i capelli strappati.
Mi riferisco alla sopraffina tortura del 没有 (méiyǒu),termine traducibile liberamente con “Non c’è; è finito; non esiste; non è mai esistito; non so di cosa stai parlando; non so cosa ci faccio qui; sembro un essere umano ma invece sono un primate e per giunta lobotomizzato; uh uh uh”.
O tu, omino bianco che entri in un loco di ristorazione sperduto nelle profondità della Terra di Mezzo, e ti siedi al tavolo, e guardi il menù, sì tu, proprio tu, cosa pensi?
Pensi forse che tutte le pietanze elencate e magari anche illustrate a vividi colori siano tutte lì apposta per te, disponibili per sollecitarti a piacimento le papille gustative?
Ma dove credi di essere?
Sappi che l’eroico ristoratore cinese tutti i giorni deve fare i conti con biechi gestori di bancarelle del mercato rionale e negozianti vari, i quali malignamente gli alzano i prezzi a tradimento, lo imbrogliano, lo sbeffeggiano e lo insultano nel corso del sacrosanto esercizio delle sue mansioni.
Sappi anche che la cella frigorifera che in Occidente è dotazione standard di qualsiasi stamberga che abbia un minimo di dignità, in Oriente è considerato un futile ammennicolo di recente introduzione rivolto principalmente agli hotel a 5 stelle, di costo sproprorzionato alla sua scarsa utilità e del quale si può fare benissimo a meno.
Ed è altrettanto inutile e diciamocelo, pure un sacco fastidioso, dover modificare il menù ogni giorno a seconda del vento che tira al mercato, o ancora peggio avvisare le cameriere di quello che c’è o non c’è in cucina in modo che esse possano informare gli avventori!
Per non parlare del fatto che magari la sorte sarà amica e l’avventore di turno, ispirato come un aruspice, azzeccherà solamente i piatti disponibili con magno gaudio di tutti.
Introduco un esempio esemplificativo, visto che questo dovrebbe essere l’ultimo post della serie dei ristoranti.
Prendiamo una bella combriccola magari di una ventina di persone, tra cui bwana bianchi in trasferta, colleghi cinesi e uno o due expat (riconoscibili perché leggermente emaciati), afflitti naturalmente dall’ingrato compito di gestire le ordinazioni.
Una volta sistemati tutti al proprio posto, finite le salve dei sempre arguti e originali motteggi riguardanti le colleghe, le cameriere, tutto il personale femminile e qualsiasi cosa dotata di capelli lunghi che si muova o respiri nel raggio di due km, arriva il momento delle ordinazioni.
Prendiamo il caso semplice di un ristorante con menù fotografico; in questo caso ognuno punta il dito sulla foto, la cameriera scarabocchia dei geroglifici incomprensibili su un pezzetto di carta da formaggio, dopodiché enunzia una tiritera che potrebbe essere una ninna-nanna in tagalog.
L’expat sorride stancamente, annuisce e sentenzia: 啤酒 (píjiǔ) “Birra”.
Tutti ridono.
La cameriera si allontana scuotendo la testa.
Dopo un intervallo di tempo variabile tra i venti minuti e i tre quarti d’ora, la cameriera si avvicina nuovamente al tavolo e mitraglia sei o sette nomi di piatti seguiti dal lapidario 没有 (méiyǒu).
Chiaramente nessuno si ricorda cosa aveva ordinato, quindi tutti devono rivedere il menu, indicare la foto, chiedere se era quello, eccetera eccetera.
Seguono altre ordinazioni.
Come è ovvio, anche alcune delle nuove ordinazioni ricadono nuovamente nel fatidico 没有, quindi la cameriera tornerà a ripetere la stessa scenetta, e così via, sino a tendere asintoticamente verso la completa soddisfazione di tutte le ordinazioni.
A volte quando il colore delle facce degli occidentali incomincia a tendere al violaceo, le cameriere incominciano a temere di portare la ferale ambascia, e allora i cuochi preferiscono ricorrere ad una soluzione tipicamente cinese: uscire a procurarsi il piatto mancante in un altro ristorante.
Chiaramente questo richiede del tempo (ma si tratta di tempo cinese, è differente da quello occidentale), ed ecco spiegato perché capita che in una combriccola di gaudenti ci possa essere un malcapitato che viene servito un’ora dopo di tutti gli altri.
So di distinti signori caucasici la cui pur notevole pazienza è stata logorata fino al punto di da cadere in parossismi di rabbia, stappando le pagine del menu e riducendole a brandelli di fronte all’allibito personale.
Non si sottovaluti l’irresistibile potenza del 没有: esso può spuntare inatteso in ogni situazione, anche a seguito di contratti scritti in pergamena di pelle umana, firmati con il sangue e timbrati con sigilli di giada.
Expat avvisato…
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Ristoranti 3
Prosegue la trattazione dei ristoranti cinesi con la categoria che non solo in Cina ma in tutta l’Asia costituisce il filone portante della ristorazione popolare.
Sto parlando delle bancarelle; in cinese “bancarella” si dice 摆摊 (bǎitān), mentre “mangiare alle bancarelle” si dice “去吃小吃” (qù chī xiǎochī).
Nel Guangdong e in tutto il Sud della Cina “bancarella” si dice 大排档 (dàpáidǎng), e quella dove vendono cibo è 小吃摊 (xiǎochītān), dove l’embulante di turno sciorina le sue leccornie generalmente per strada, avvalendosi di attrezzatura sommaria.
Fino a qualche anno fa al calare della sera queste bancarelle spuntavano dovunque; vendevano cibo di tutti i tipi, dalle cose più semplici fino anche a manicaretti di una certa complessità.
Niente anatra laccata, certo, ma non si deve mai sottovalutare l’ingegnosità dei cinesi, che (quando vogliono) con quattro pezzi di ferraglia sanno mettere in piedi delle cucine da campo semoventi veramente invidiabili.
La cosa bella era poi che il tutto avveniva all’aria aperta: gli ingredienti erano esposti in bella vista, si potevano scegliere a piacimento quelli più invitanti, e la cottura avveniva sotto gli occhi del cliente.
Poi il governo ha incominciato a premere sull’igiene, sono uscite leggi e normative che hanno costretto questi ristoratori “indie” a rintanarsi nei primi bugigattoli che hanno trovato, con il risultato che quello che una volta aveniva alla luce del sole (si fa per dire, visto che normalmente ci si andava alla sera) ora è circondato dal mistero di ciò che avviene nella penombra della cucina, dove per quello che ne sai quello che ti sta preparando la cena potrebbe essere uno scarafaggio gigante con il grembiule da cuoco, o una pantegana come nel film “Ratatouille“.
Oggi si trovano ancora bancarelle e ristorantini di buona qualità e prezzi irrisori, ma bisogna spingersi un po’ fuori dal centro città.
Rimpiango un poco quando si usciva la sera e c’erano intere strade fiancheggiate da file ininterrotte di chioschetti che smerciavano cibarie di tutti i tipi, dall’Uyghur che faceva il kebab al pesce in casseruola dello Sichuan.
Facile anche fare nuove conoscenze, specialmente se il ristoratore aveva in dotazione qualche cassa di birra opportunamente parcheggiata vicino ai tavoli.